giovedì 11 aprile 2013

Open, la mia storia

Sto leggendo Open, l'autobiografia di Andre Agassi. Non avrei mai pensato che potessi interessarmi  alla vita di un tennista, ma un giorno un amico mi ha inviato la sua recensione del libro. La potete leggere di seguito.
Grazie Paolo.

Amo il tennis. L’ho giocato tanto e lo seguo quando posso. Ancora adesso ogni tanto prendo la racchetta in mano. Erano tempi epici signori miei: Mc Enroe, Borg, Wilander, Connors. Ero giovane e avevo bisogno di eroi. Uno di quegli eroi era Andre Agassi. Quello che mi ha sempre colpito in lui erano due cose: lo sguardo e i piedi. Aveva uno sguardo sempre un po' smarrito, un po' strano. Qualcosa tipo “ma io cosa ci sto a fare qui?”
I piedi invece erano rivolti verso l’interno. Camminava strano quasi in punta di piedi. Il suo gioco era diverso da tutti gli altri. Sostanzialmente c’erano attaccanti e “fondo campisti”. Lui invece era una via di mezzo, colpiva la palla non mentre scendeva ma mentre saliva e tirava bombe che lasciavano gli altri a bocca aperta.



Avevo letto che il suo libro autobiografico, Open, fosse bello e me lo sono comprato. È in effetti molto bello e appassionante. La peculiarità sta nel fatto che ti fa meditare su un concetto molto particolare e molto forte che scopriamo mentre leggiamo le sue parole. Andre è stato costretto dal padre a giocare a tennis. 
Il padre, di origini Iraniane/Armene, lo ha praticamente torturato da quando era piccolo. Aveva costruito un campo da tennis nel suo giardino e una macchina tipo cannone che sputava le palle da tennis a 100 km orari. Faceva riposare Andre solo quando tutto il campo era pieno di pallette e lui non poteva più tirarne una.
Insomma, Open è la storia di un campione di tennis che odiava il tennis. Bello no? Una specie di Amleto che vive tra Wimbledon e gli US Open. Capisce che la sua professione gli permette di vivere, ma odia vivere quella vita. Una contraddizione in termini che lo porta naturalmente ad alti e bassi, alla scelta di provare la droga per poi decidere di aprire una fondazione e aiutare i bambini disagiati. 
Un uomo fragile e forte, un campione con i piedi storti.
Agassi ci racconta delle sue epiche partite contro Sampras, del suo amore con Stefi Graff e delle persone che lo hanno aiutato nella sua carriera a fare le scelte giuste e a non cadere nel vuoto più profondo.
Il libro è il prodotto di un lungo lavoro fatto da Agassi con J.R. Moehringer, giovane scrittore e giornalista vincitore persino di un Pulitzer. Moehringer non ha voluto mettere il suo nome sul libro per il rispetto della storia che era ed è solo di Agassi. Naturalmente viene citato dal campione e ringraziato per la sua professionalità.
Un bel libro che scorre come una partita di tennis piacevole e dura. Una piacevole sorpresa che raccomando a tutti i genitori che accompagnano i loro figli in piscina, nei campi di calcio, in palestra.
Guardatevi allo specchio e guardate i loro occhi.
E soprattutto controllate che le punte dei piedi non siano rivolte verso l'interno.

Buona lettura

Paolo Trippa

lunedì 18 marzo 2013

MIchela Murgia, la Sardegna e l'Accabadora


"Ci sono buchi in Sardegna che sono case di fate, morti che sono colpa di donne vampiro, fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono statue di antichi guerrieri alti come nessun sardo è stato mai, truci culti di santi che i papi si sono scordati di canonizzare, porte di pietra che si aprono su mondi ormai scomparsi, e mari di grano lontani dal mare, costellati di menhir contro i quali le promesse spose si strusciano nel segreto della notte, vegliate da madri e nonne. C'è una Sardegna come questa, o davanti ai camini si racconta che ci sia, che poi è la stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto piú parlato, le parole sono luoghi piú dei luoghi stessi, e generano mondi.”



Questa è la terra di Michela Murgia, descritta nel suo Viaggio in Sardegna (Einaudi, 2008), quella che lei definisce” il suo baricentro, il punto di vista da cui ha sempre guardato il mondo. Una terra che non ha mai lasciato e che descrive con tanta profondità e poesia da farne innamorare chiunque.
Michela Murgia, classe 1972, ha vinto il premio Campiello nel 2010 con il libro Accabadora, oggetto della nostra prossima discussione (martedì 9 aprile).
Il premio è arrivato, si dice, a sorpresa (ma non troppo): con 119 voti su 300  ha battuto gli altri finalisti (Gad Lerner, Antonio Pennacchi, Gianrico Carofiglio, Laura Pariani, Silvia Avallone). Ricevendo il premio alla Fenice di Venezia, il suo pensiero non è stato, come ci si poteva aspettare, per sua madre, o per le sue due madri, ma a un'altra madre che in quel momento rappresentava tutte le madri del mondo schiacciate dalla violenza di una legge assurda: "Dedico il premio non alla Sardegna che ora non ne ha bisogno, ma a Sakineh, la giovane donna iraniana" condannata alla lapidazione.
Quando parla Michela Murgia ha la lucidità e la capacità di analisi di una combattente, una forza insolita che esercita una attrazione quasi magnetica. Del resto è proprio per combattere, "per necessità", che ha iniziato a scrivere, perché, come ha dichiarato in un'intervista “quando niente di quello che puoi fare farà la differenza, forse la differenza la devi fare con quello che puoi dire”. Così ha aperto un blog in cui raccontava la sua esperienza di lavoro,  denunciando sfruttamento e sopraffazioni.  Dopo solo un mese e mezzo un editore ha letto i suoi post e le ha proposto la pubblicazione di un libro. 
Ha esordito nel 2006, senza aver mai scritto nulla prima di allora, con un libro sulla condizione dei precariato italiano, Il mondo deve sapere, un diario tragi-comico ambientato nel mondo dei call-center. Il libro ispirerà poi il bellissimo film di Virzì Tutta la vita davanti.
Prima di raggiungere il successo, Michela Murgia ha svolto diversi lavori che ha definito “tutti interessanti”. Uno di questi è stato il portiere di notte in un albergo del suo paese. Chi l'assunse cercava in realtà un uomo, ma lei seppe persuaderlo che all'occorrenza sapeva essere un uomo convincente. Non abbiamo dubbi.


sabato 2 marzo 2013

In attesa dell'Amica geniale


Mancano pochi giorni all'8 marzo, giorno in cui ci incontreremo per parlare dell'ultimo libro letto insieme, L'amica geniale
E allora, nell'attesa, poche righe sull'autrice. Di Elena Ferrante, autrice del libro, non conosciamo molto, non sappiamo neanche se sia un uomo o una donna perché quello che usa per firmare i suoi libri è soltanto uno pseudonimo. Di lei sappiamo che ha vissuto a Napoli e che ha scritto sei libri in vent'anni. Quasi nient'altro. 




Elena Ferrante ha scelto l'anonimato per difendere i suoi libri da un'idea preconcetta, per lasciare loro la libertà di esistere senza la tutela di un nome, di piacere o non piacere semplicemente per come sono scritti e non perché siano figli di qualcuno. In un'intervista rilasciata via e mail a Paolo di Stefano per il supplemento culturale del Corriere della Sera, risponde così alla domanda sulla sua identità nascosta:

Non si è mai pentita di aver scelto l’anonimato? In fondo le recensioni si soffermano più sul mistero-Ferrante che sulle qualità dei suoi libri. Insomma, con risultati opposti rispetto a quelli che lei auspica, cioè enfatizzando la sua ipotetica personalità?

«No, nessun pentimento. A mio modo di vedere, ricavare la personalità di chi scrive dalle storie che propone, dai personaggi che mette in scena, dai paesaggi, dagli oggetti, da interviste come questa, sempre e soltanto insomma dalla tonalità della sua scrittura, è nient’altro che un buon modo di leggere. Ciò che lei chiama enfatizzare, se è fondato sulle opere, sulla energia delle parole, è un onesto enfatizzare. Ben diversa è l’enfatizzazione mediatica, il predominio dell’icona dell’autore sulla sua opera. In quel caso il libro funziona come la canottiera sudata di una popstar, indumento che senza l’aura del divo risulta del tutto insignificante. È quest’ultima enfatizzazione che non mi piace».

L'amica geniale è un libro diverso dagli altri libri di Elena Ferrante e qualcuno ha parlato di una scrittura a più mani, forse con l'idea che uno scrittore, per essere riconoscibile, debba sempre mantenere una coerenza immobile. Ma non è forse la scrittura, come la recitazione, una tecnica di finzione?  



giovedì 14 febbraio 2013

Il compito del traduttore. Murakami in italiano


Girando intorno a Murakami e al suo mondo, mi è capitato di leggere un articolo di Giorgio Amitrano, già uscito su Alias e poi pubblicato su un bel blog,  Le parole delle cose, dove vi consiglio di andare a curiosare.
Giorgio Amitrano è il traduttore di Murakami, la persona che ha il difficilissimo compito di trasformare qualcosa in qualcos'altro rispettandone, tuttavia, la natura, il senso, il ritmo.





“Tradurre Murakami significa, dall’inizio alla fine, affrontare problemi concreti, cercare pazientemente nella propria cassetta degli strumenti la parola giusta e, una volta trovata, valutarne il colore, il peso, la densità; giudicarla perfetta e doverla poi, con rammarico, mettere da parte perché non “lega” col resto della frase. Oppure capita di usare la lima per ridurre le ripetizioni, sapendo che in giapponese sono accettate e in italiano no. Alcuni giudicano la ripetitività di Murakami un difetto, ma anche se a volte io stesso la trovo irritante, devo ammettere che le sue ripetizioni non indeboliscono il racconto, anzi lo rafforzano. E alla fine diventano una cifra stilistica. Per questo bisogna fare attenzione. Limare troppo modificherebbe il profilo dei suoi testi, alterandone i lineamenti. Allo stesso tempo, riprodurre integralmente ogni ripetizione, ignorando che giapponese e italiano obbediscono a diverse regole di logica e ritmo, provocherebbe nel lettore un rifiuto.”




Il lavoro del traduttore è un lavoro paziente di ricerca continua, una ricerca solitaria e quotidiana senza la quale i confini in cui viviamo, immaginiamo e pensiamo sarebbero assai più stretti. Eppure il traduttore è un po' il fantasma della letteratura, è per questo che mi è venuta voglia di scrivere due righe per ricordare chi ci ha reso possibile leggere qualcosa altrimenti illegibile.



domenica 10 febbraio 2013

After Dark

After Dark, di Murakami Haruki è il titolo dell'ultimo libro scelto dal nostro gruppo di lettura. Ne abbiamo parlato ieri sera, davanti ai soliti vassoi strapieni di dolci, cioccolatini e a qualche bicchiere di vino rosso (a dirla tutta girava anche dell'ottimo sidro).

Parlando, parlando abbiamo scoperto che Murakami Haruki (Murakami è il cognome, Haruki è il nome, che in Giappone si usano in quest'ordine) è una vera pop star della rete. Esiste in commercio addirittura un App per Ipod e Ipad che si può scaricare per ricevere ogni giorno una citazione tratta da un suo libro. Il Murakami diary costa soltanto 2,39 euro ma... è in inglese. Provare per credere, clicca qui 


Poi siamo andate a cercare i trailer del film preferito da Takahashi, Alphaville, lo stesso che dà il nome al love hotel di Tokio in cui s'incrociano le vite dei protagonisti del libro. Per chi non lo ricordasse, o non l'avesse mai saputo, Alphaville è un film del 1965 diretto da Jean-Luc Godard, un film che Murakami descrive nel dialogo che segue tra Mari e Takahashi:
"Cosa significa Alphaville?"
“E’ il nome di una città immaginaria in un prossimo futuro.”
“Ah, è un film di fantascienza? Tipo Guerre Stellari?”
“No, non è di quel genere, non è un film d’azione, con effetti speciali… non so spiegarmi bene, ma è un film ideologico. In bianco e nero, con tanti dialoghi, di quelli che danno nei cinema d’arte e d’essai.”
“Come ideologico?
“Tipo, ad Alphaville le persone che piangono vengono arrestate e punite pubblicamente.”
“Perché?”
“Perché ad Alphaville nessuno deve provare emozioni profonde. Quindi non esistono sentimenti come l’amore. E nemmeno la contraddizione o l’ironia. Tutte le cose vengono regolate usando una formula matematica secondo uno schema centralizzato.”[…]
“Beh, non è che mi sia troppo chiaro. Comunque in questa città, Alphaville, il sesso esiste?”
“Sì, il sesso esiste.”
“Un sesso che non ha bisogno nè di amore nè di ironia…”
“Già.”



Ma i riferimenti al cinema non sono soltanto nei richiami a Godard. Murakami descrive le scene come  fossero inquadrate da una telecamera, esterna, estranea agli avvenimenti, e come se ciò che la telecamera riprende non fosse reale, ma qualcosa che accade in zona liminare, che sta tra la realtà e il sogno. Questa zona sospesa è lo spazio in cui si muovono e s'incontrano i sei personaggi del libro, sei persone che vivono la notte tutta intera, rimanendo svegli fino all'alba.

"Scegliamo una di queste case che sembrano tutte uguali e scendiamo dritti. Passiamo attraverso una finestra del primo piano dalle tende color crema abbassate ed entriamo senza far rumore nella stanza di Asai Eri.
Nel letto Mari dorme stretta alla sorella. Si sente il suo lieve respiro. Da quel che possiamo vedere, sembra un sonno tranquillo. Forse perché il suo corpo si è scaldato, le guance sono più rosee di prima. I capelli le ricadono sulla fronte. Probabilmente sta facendo un sogno, oppure è solo un ricordo, ma sulle labbra le affiora l’ombra di un sorriso. E’ passata attraverso un lungo tempo buio, ha scambiato molte parole con le persone della notte che nella notte ha incontrato, ma ora finalmente è tornata al luogo a cui appartiene. Attualmente, almeno per il momento, intorno a lei non vi è nulla che la minacci. Ha diciannove anni ed è protetta dal tetto e dalle pareti. E' protetta dai giardini tenuti a prato, dai sistemi d’allarme, dalle station wagon tirate a lucido, dai grossi cani intelligenti che passeggiano nel vicinato. La luce mattutina che entra dalla finestra l’avvolge con dolcezza, la riscalda. La sua mano sinistra è posata sui capelli neri di Eri sparsi sul cuscino. Le dita sono aperte dolcemente e un po’ piegate, in un modo naturale."

Continuando a parlare, abbiamo poi scoperto che i riferimenti al jazz in cui s'inciampa continuamente tra le pagine del libro non nascono soltanto da un esigenza narrativa: nel 1975 Haruki aprì  un jazz bar a Tokyo, insieme alla moglie. Il locale si chiamava Peter cat, dal nome del suo gatto, era un grande stanzone bianco senza finestre con le sedie e tavoli di legno, ovunque foto di gatti. La musica è per lui una grande passione e After Dark, che ha dato il titolo al libro, è uno straordinario pezzo jazz del 1959 suonato dal trombettista Curtis Fuller.



La serata si è chiusa con una finestra aperta su Murakami e sul Giappone e con il desiderio di leggere e conoscere ancora.
Questo spazio è a disposizione di tutti coloro che vorranno aggiungere e condividere qualcosa a proposito di Murakami, di After dark e del favoloso Giappone.