Il
titolo allude a quello di un celebre saggio di Mario Praz, “La
carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica” non perché
Alexis Zorba, il protagonista di “Zorba il greco” di Nikos
Kazantzakis, sia un eroe romantico ma perché sicuramente con la
carne, la morte e il diavolo ha molto a che fare. Perché ha a che
fare con la vita.
Tra
l'altro siamo arrivati a lui proprio per un'assonanza con “Canne al
vento”, nostra lettura immediatamente precedente, anche quello
romanzo di carne e sangue, e perché si svolge su un'altra isola del
Mediterraneo, grande e importante come la Sardegna, Creta.
Dice
Zorba a un certo punto, al suo “padrone” che è l'io narrante:
“Anche
il corpo ha un'anima: abbine pietà. Dalle qualcosa da mangiare,
padrone, dalle qualcosa. È la nostra bestia da soma, non lo sai? Se
non la nutriamo a dovere ci lascerà a terra nel bel mezzo della
strada”.
Per
il 17 maggio dunque, come da tradizione, cena greca, tzatziki,
olive, pomodori, pastitzio, e una buona dose di retsina e
ouzo, molta nostalgia delle taverne greche per chi le
conosce.... e naturalmente la musica di Mikis Theodorakis.
Da
subito, Zorba ci appare come l'alter
ego
del protagonista che fortuitamente lo incontra al Pireo mentre sta
per imbarcarsi per Creta per un affare che li legherà poi
indissolubilmente.
Grande
anarchico Alexis, quanto ponderato, riflessivo, inibito è Nikos (lo
possiamo chiamare così, con il nome dello scrittore, visto che è di
lui che si tratta). Nikos è un intellettuale, uno “scribacchino”;
lo immaginiamo verso i trent'anni, vestito con proprietà e sempre in
conflitto con la materia delle sue ricerche: tra tutte risalta uno
scritto sul Buddha, sua croce e delizia. “Carne non esposta al
sole” lo definirà Zorba.
Partono
insieme, durante la notte il mare è agitato ma al mattino è calmo e
color indaco, scenario perfetto per l'apparizione della “grande
isola sovrana”.
Zorba inizia il racconto di sé, della sua vita
avventurosa, dalla Macedonia, dove è nato, a Creta, dove è già
stato prima di ora a combattere insieme ai ribelli cretesi contro i
turchi. Ha ucciso, anche barbaramente. È stato un brigante. Ora è
contro la guerra. Anche se porta, come in quel caso, la libertà.
Sull'isola
trovano da dormire nelle stanze affittate da Madame Hortense, una
chanteuse
che
sotto il trucco pesante nasconde un'anima bambina e passionale. Zorba
la farà felice, adulandola per amore e per rispetto della sua
umanità. La chiamerà sirena e ninfa del mare e per lei sarà
credibile, e questo è quel che conta. Del resto, dietro ogni donna
per lui c'è Venere, la Donna.
Nell'isola,
al di là dei suoi racconti, semplicemente guardandolo, Nikos conosce
davvero Zorba. Prova un'ammirazione sconfinata per il suo sguardo
primigenio sul mondo: “Tutte le cose sbiadite dalla consuetudine
quotidiana riacquistavano lo splendore che avevano i primi giorni,
appena uscite dalle mani di Dio”. Zorba balla in riva al mare come
un uccello e in poche occasioni, tirandolo fuori con delicatezza
dalla sua custodia di stoffa, suona il salterio. Il ballo e la musica
sono la sua seconda natura.
I
due lavorano insieme per la miniera di lignite, Nikos è il padrone,
Zorba il primo dei lavoranti. Si integrano nella comunità locale
ognuno a suo modo. Ci sono storie efferate che accadono, come quella
della vedova seduttrice che si muove come il personaggio di una
tragedia, i monaci fuori di testa e con la tunica bisunta che
ricordano certi preti russi di Dostoevskij, ci sono i benpensanti, i
misogini, i poveri di spirito... una comunità dai tratti universali.
Tra
i dubbi esistenziali dello “scribacchino” e le potenti visioni
del brigante, che ogni volta che guarda il cielo stellato lo vede per
la prima volta, ne è soggiogato e lo descrive come un profeta, si
dipana la storia cretese dei due, destinata ad interrompersi in modo
drammatico.
Sappiamo
che Zorba, anzi Zorbàs, è un personaggio reale: Kazantzakis lo
conobbe sul Monte Athos nel 1914, mentre era lì come visitatore.
Zorbàs, che si chiamava Jorghis, era un taglialegna. Divennero amici
e collaboratori e realmente lavorarono in una miniera di lignite,
come quella del romanzo, ma nel Mani (Peloponneso). Lo scrittore lo
portò con sé nel 1917 nel Caucaso, per una missione politica
(riportare in Grecia gli elleni che vivevano lì da epoche
lontanissime). Si separarono nel 1920 e nel 1942 Kazantzakis venne a
sapere da un maestro di Skopje che Zorbàs era morto. Ma “Nulla di
suo era morto in me. Come se tutto ciò che aveva toccato Zorbàs
fosse diventato immortale”. Scrisse così, nel 1943, a Egina, in
quarantacinque giorni, “Vita e opere di Alexis Zorbàs” (divenuto
poi, nella traduzione inglese, “Zorba the Greek”).
Una
piccola curiosità legata al Premio Nobel. Nikos Kazantzakis, uomo di
cultura vastissima, instancabile viaggiatore e prolificissimo
scrittore, nonché traduttore dal greco antico al neogreco
dell'Iliade
e
dell'Odissea,
autore
di una monumentale Storia
della letteratura russa e
della traduzione della Divina
Commedia,
è andato molto vicino all'assegnazione del Premio.
Lo
scrittore morì nel 1957. Proprio in quell'anno, il premio veniva
assegnato ad Albert Camus, per un solo voto di differenza. Due anni
dopo, il 16 marzo 1959, Camus scrive a Eleni Kazantzakis
“Nutrivo
una grande ammirazione e se mi consente una sorta di affetto per
l'opera di suo marito. Non dimenticherò mai che, proprio nel giorno
in cui mio malgrado ricevevo un riconoscimento che Kazantzakis
meritava cento volte più di me, ho ricevuto un suo telegramma tra i
più magnanimi.”
Sulla
tomba di Nikos Kazantzakis, a Heraklion, c'è un motto – si direbbe
– inventato da Zorba:
Non
mi aspetto nulla. Non temo nulla. Sono libero
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