"Ci
sono buchi in Sardegna che sono case di fate, morti che sono colpa di
donne vampiro, fumi sacri che curano i cattivi sogni e acque segrete
dove la luna specchiandosi rivela il futuro e i suoi inganni. Ci sono
statue di antichi guerrieri alti come nessun sardo è stato mai,
truci culti di santi che i papi si sono scordati di canonizzare,
porte di pietra che si aprono su mondi ormai scomparsi, e mari di
grano lontani dal mare, costellati di menhir contro i quali le
promesse spose si strusciano nel segreto della notte, vegliate da
madri e nonne. C'è una Sardegna come questa, o davanti ai camini si
racconta che ci sia, che poi è la stessa cosa, perché in una terra
dove il silenzio è ancora il dialetto piú parlato, le parole sono
luoghi piú dei luoghi stessi, e generano mondi.”
Questa
è la terra di Michela Murgia, descritta
nel suo Viaggio
in Sardegna
(Einaudi, 2008), quella
che lei definisce”
il suo
baricentro,
il punto di vista da cui ha
sempre
guardato
il mondo. Una terra che non ha mai
lasciato e che descrive con tanta profondità e poesia da farne
innamorare chiunque.
Michela
Murgia, classe 1972, ha vinto il premio Campiello nel 2010 con il
libro Accabadora, oggetto della nostra prossima discussione (martedì
9 aprile).
Il
premio è arrivato, si dice, a sorpresa (ma non troppo): con 119
voti su 300 ha
battuto gli altri finalisti (Gad Lerner, Antonio Pennacchi, Gianrico
Carofiglio, Laura Pariani, Silvia Avallone). Ricevendo il premio alla Fenice di
Venezia, il
suo pensiero non è stato, come ci si poteva aspettare, per sua
madre, o per le sue due madri, ma a un'altra madre che in quel
momento rappresentava tutte le madri del mondo schiacciate dalla
violenza di una legge assurda:
"Dedico il premio non alla Sardegna che ora non ne ha
bisogno, ma a Sakineh, la giovane donna iraniana" condannata
alla lapidazione.
Quando parla Michela Murgia ha la lucidità e la capacità di
analisi di una combattente, una forza insolita che esercita
una attrazione quasi
magnetica.
Del resto è proprio per combattere, "per necessità", che ha iniziato a scrivere,
perché, come ha dichiarato in un'intervista “quando
niente
di quello che puoi fare farà la differenza, forse la
differenza la
devi fare con quello che puoi dire”.
Così
ha
aperto un
blog in cui raccontava
la sua esperienza di lavoro, denunciando sfruttamento e sopraffazioni. Dopo solo un mese e mezzo un editore ha letto i suoi post e le ha proposto la pubblicazione di un libro.
Ha
esordito nel 2006, senza aver mai scritto nulla prima di allora, con
un
libro sulla condizione dei precariato italiano,
Il
mondo deve sapere, un diario tragi-comico ambientato nel mondo dei call-center. Il
libro ispirerà
poi
il bellissimo film di Virzì Tutta
la vita davanti.
Prima
di raggiungere il successo, Michela Murgia ha svolto diversi lavori
che ha
definito
“tutti interessanti”. Uno di questi è stato il portiere di notte
in un albergo del
suo paese.
Chi l'assunse
cercava in realtà un uomo, ma lei seppe persuaderlo
che all'occorrenza sapeva essere un
uomo convincente.
Non
abbiamo dubbi.
Michela Murgia è una a cui piace scrivere. Si nota subito nel suo libro Accabadora, scritto prima di tutti gli altri romanzi che l'hanno resa famosa.
RispondiEliminaLo si capisce perché in questo libro è stata capace di parlare di poche cose, di pochi personaggi e di ridotti paesaggi, eppure durante la lettura sembra aprirti un mondo davanti. Lo si capisce perchè, anche quando pensi che il libro stia per finire, lei aggiunge altro.
In un'intervista alla casa editrice Einaudi ha dichiarato che le prime cinque cartelle di questa storia le aveva presentate ad un concorso per scrittori esordienti, organizzato dalla scuola Holden. In quella occasione arrivò prima e capì immediatamente che il libro poteva lievitare. Ha impiegato due anni per terminare l'opera e un po' si nota che gli altri impegni lavorativi prendevano il sopravvento sulla scrittura scorrevole e lineare.
A lei piace – dice sempre in questa intervista – “la maternità elettiva”, quella che si può anche scegliere, quella che ti permette di tornare indietro, se qualcosa non funziona. Lei stessa è fill'e anima e la questione del destino l'avrà vissuta senza vincoli di sangue.
Insomma alla Murgia non sembrano piacere i limiti, le regole e le imposizioni. Vuole descrivere il più possibile, anche debordando, tutto quello che una ragazzina adolescente può provare, ma senza metterci mai un pre-giudizio. E' questo il grande pregio del libro, si raccontano temi moralmente difficili, questioni che non si possono tagliare con l'accetta, eppure ti sembra di leggere la vita com'è, piena di dubbi e ripensamenti.
Il libro scorre così, nell'ennesima provincia sarda, anni '50, dove il ritmo del paese è scandito più dalle irregolarità che dalla routine. Una bambina viene presa in carico da una signorina, senza più fidanzato morto in guerra, e da lei apprende la vita pratica ma soprattutto i pensieri pratici, quelli che devi trovare quando sei in situazione di emergenza, quelli che devi avere quando un tuo amico stretto, un familiare, un parente ti chiede di aiutarlo amorevolmente.
La protagonista aiuta tutti ma senza telecamere, senza protagonismi, senza clamore e questo purtroppo, in un Paese come il nostro, è un limite.