Per
discutere de “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino ci
siamo incontrati in una calda serata di luglio sulla bella e ospitale
terrazza di Valeria Curcio, in zona Quarto Miglio, allietati oltre
che, come al solito, da ottimo cibo, anche da un magnifico tramonto
con vista sul parco degli Acquedotti e molto altro.
Il
libro di Calvino, la sua opera prima, si è aggiudicato l'ottavo
posto nella nostra lista di preferiti tra i quarantadue letti e
dunque grande è stato l'apprezzamento sia tra chi lo aveva già
letto, sia tra chi lo leggeva per la prima volta.
Abbiamo
naturalmente anche parlato a lungo della Prefazione, scritta dallo
stesso Calvino nel 1964, diciassette anni dopo la prima edizione
Einaudi del 1947. Non si tratta della semplice “introduzione” a
un testo, ma di un fondamentale, mirabile e appassionato resoconto
del clima letterario, sociale e politico dell'immediato secondo
dopoguerra; nello stesso tempo un testo di critica letteraria e di
note autobiografiche. Tra il 1964 di quella prefazione ed oggi è
passato oltre un cinquantennio al centro del quale ha imperversato
come un ciclone di vento maligno un feroce revisionismo che ha
permeato così tanto l'opinione pubblica e il senso comune che
Resistenza e Antifascismo sono oggi parole svuotate di significato e
quasi obsolete. Questa prefazione è molto utile per liberarsi da
quel vento e, se possibile, guardare avanti.
Calvino
inizia ciascun paragrafo di questa prefazione con la frase “Questo
romanzo è il primo che ho scritto...”. In effetti ha ventiquattro
anni quando lo pubblica e - ci racconta - lo stile letterario che gli
si è imposto (uno stile che non adotterà mai più in seguito) è
quello neorealista, per il bisogno espressivo di dare voce a ciò che
ha conosciuto e vissuto. Entrato nella Resistenza dopo l'8 settembre
del '43 con il nome di “Santiago” (dal nome della città cubana
dove era nato), conosceva molto bene un paesaggio e degli uomini e di
questo vuole scrivere con verità. Una scelta etica, oltre che
letteraria. Ma questa non è tutta la verità.
Anzitutto:
scrive in una prima persona che non è “anagrafica” ma è quella,
spostata in avanti, di un ragazzino, Pin, in bilico tra una
fanciullezza negata e un'adolescenza precaria. Gli altri personaggi,
fortemente caratterizzati, sono riferibili a persone che Calvino ha
realmente conosciuto durante i mesi della lotta partigiana, ma
“contraffatti, irriconoscibili”. Si rammarica, nella prefazione,
di aver così caricato i caratteri dei suoi compagni “sotto la
lente espressionistica” ma la contraffazione ha un senso poetico
che gli permette di sfuggire a un doppio pericolo: la mitizzazione
letteraria della Resistenza e la denigrazione revisionistica che era
già in atto e che faceva leva sulla rappresentazione dei partigiani
come dei pochi di buono mezzi o tutti delinquenti. Nel distaccamento
del “Dritto” effettivamente sono tutti mezzi storti, come è
storto Pin, l'unico che sa dove fanno i nidi i ragni e che è un
personaggio dalla notevole complessità psicologica. Apparentemente è
un picaro, un furfantello che le avversità della vita hanno
scaraventato in un mondo adulto alieno e minaccioso, in cui si salva
con espedienti vari. E la scelta di scrivere dal punto di vista di un
ragazzo, oltre che dare al racconto un tono fiabesco, anche se di
fiaba non lieve, è stato letto come una scelta di “leggerezza”,
la leggerezza di cui scriverà Calvino nelle “Lezioni americane”,
come racconta Silvana più sotto.
Ma
va comunque tenuta presente l'identificazione dello scrittore con il
suo personaggio, che non ha nulla di leggero: di nuovo nella
Prefazione, Calvino definisce l'energia del giovane protagonista “una
forza vitale ancora oscura in cui si saldano l'indigenza del 'troppo
giovane” e l'indigenza degli esclusi e dei reietti”. Una
sensazione che conosce per averla vissuta quando “il maturare
impetuoso dei tempi non aveva fatto che accentuare la mia
immaturità”. Un gorgo drammatico di sentimenti, paure,
spavalderie, fragilità...
Forse
è in parte autobiografico anche il personaggio che sta al polo
opposto rispetto a Pin, l'uomo adulto, padrone delle proprie azioni e
dei propri pensieri, il comandante Kim, voce recitante del discusso
capitolo IX che, come Calvino stesso spiega, tanto è stato visto
come slegato dalla storia che gli è stato persino chiesto di
toglierlo dal libro. Alla fine, pur comprendendo che l'”innesto
ideologico” in esso contenuto rompeva l'omogeneità del libro, ha
deciso di conservarlo perché in fin dei conti rispettava il
carattere “spurio e composito” con cui il romanzo era stato
concepito. In una scena quasi teatrale (anche se all'aperto) Calvino
esce dalla narrazione delle disavventure di Pin e compagni, e per
bocca di due personaggi, Kim e Ferriera, che finora non sono comparsi
ma che hanno potere di vita e di morte su coloro che abbiamo fin qui
conosciuto, dà conto di alcune importanti questioni: perché si
uccide, cosa si difende stando da una parte o dall'altra, chi è che
sta combattendo e perché.
Noi
abbiamo conosciuto durante la lettura del libro il distaccamento del
Dritto, nella descrizione di Kim “gente che non ha niente da
difendere e niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati
o fanatici. Un'idea rivoluzionaria in loro non può nascere, legati
come sono alla ruota che li macina”. Questa gente, facilmente può
passare da una parte all'altra. Eccoci al punto: è dunque la stessa
cosa combattere da una parte o dall'altra? “la stessa cosa ma tutto
il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua
si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena”. Gli spari sono
gli stessi, ma conducono in posti diversi nella storia: qua dalla
parte del riscatto, di là dall'altra parte, semplicemente. E su
questo Zaira Tarragoni si è soffermata riflettendo sul senso di questo
riscatto che
non è, non solo, il riscatto altisonante, eroico, nobile che, a
volte, sembra essere così distante dal quotidiano, ma il riscatto
del contadino dall'ignoranza, dell'operaio dallo sfruttamento. È un
riscatto concreto e reale contro tutte le umiliazioni. Questo è il
vero significato della lotta.
Prima
di lasciare la parola a Silvana, un' ultima considerazione: nella
stampa generata da quel processo di revisionismo dal volto feroce di
cui si è detto, si è millantato il bisogno di “dare la parola a
chi è stato per anni costretto a tacere dall'arroganza dei
vincitori” (così l'ineffabile Giampaolo Pansa). E invece il lato
oscuro della Resistenza, le sue ambivalenze o “stramberie” erano
stati rappresentati già – e in forma letteraria altissima – da
Calvino e da Fenoglio, oltreché naturalmente da numerosi storici.
“Una
questione privata” di Beppe Fenoglio sarà la nostra prossima
lettura. Non è un caso che l'abbiamo scelto: lasciamo la parola al
Calvino della Prefazione al “Sentiero” e alle sue riflessioni
sulla letteratura della Resistenza:
“Ma
ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in
genere furono i più isolati, i meno “inseriti” a conservare
questa forza. E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il
romanzo che tutti avevamo sognato, Beppe Fenoglio, e arrivò a
scriverlo e nemmeno a finirlo (Una questione privata)
e morì prima di vederlo pubblicato […]
Una
questione privata […] è costruito
con la geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e
cavallereschi inseguimenti come l'Orlando furioso,
e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com'era, […] con
tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la
commozione, e la furia. […] È al libro di Fenoglio che volevo fare
la prefazione, non al mio.”
Luisa Marigliano ha fatto una piccola ricerca sui genitori di Italo Calvino e ne sono usciti fuori ritratti che davvero sembrano usciti da un libro di avventura:
I genitori di Italo Calvino erano delle
persone assolutamente fuori dal comune.
La madre, Eva Mameli, era imparentata
con Goffredo Mameli, l’autore dell’inno nazionale. Nacque a
Cagliari nel 1886 e fu la prima ragazza a frequentare un liceo
pubblico cagliaritano riservato ai maschi e fu la prima docente donna
all’università di Cagliari ove insegnava botanica. Sposò Mario
Calvino con il quale ebbe 2 figli, Italo e Floriano. Quando il marito
si trasferì, per motivi di sicurezza, a Cuba, lei lo seguì.
Rientrarono in Italia nel 1925, Italo aveva 2 anni. Fu una donna
estremamente coraggiosa tanto da non fuggire dai fascisti che
inscenarono una finta fucilazione per ottenere da lei informazioni
sui figli che erano entrati a far parte della lotta partigiana. Alla
caduta del regime diresse la rivista ‘Giardino Fiorito’ e
rispondeva a chi le scriveva per consigli sul giardinaggio.
Il padre, Mario, nacque a Sanremo nel
1875. Proveniva da una famiglia di mazziniani, anticlericali e
massoni. Fu coinvolto in un intricato caso collegato al fallito
attentato all’imperatore Nicola II. L’attentatore aveva con sé
il passaporto e la tessera di giornalista di Mario Calvino che
sostenne di aver subito il furto di tali documenti mentre viaggiava
in treno e che, a causa dei suoi numerosi impegni, aveva dimenticato
di denunciare il furto. Nel gennaio del 1909, sentendosi in
pericolo, approfittò di un viaggio di lavoro in Francia e si
imbarcò per gli Stati Uniti da cui raggiunse il Messico ove prese
parte alla rivoluzione di Pancho Villa. Nel 1917 accettò l’incarico
di Direttore della Stazione Sperimentale di agricoltura a Santiago
de Las Vegas vicino all’Avana, a Cuba. Nella Biblioteca civica di
Sanremo si trova il grande Fondo Mario Calvino e Eva Mameli Calvino
donato alla città da Italo e Floriano Calvino nel 1979, anno di
morte della mamma. Di tale fondo fanno parte 42.000 pubblicazioni, 1.000
volumi monografici, 212 periodici, 10.000 opuscoli e molte
fotografie.
E
queste - come anticipato – sono le considerazioni di Silvana
Pestilli:
Forse
le colline intorno a San Remo non sono più quel paradiso terrestre
descritto nel “Sentiero dei nidi di ragno” dove Pin scorrazza
abbuffandosi di fragole o di ciliegie, i cui noccioli gli servono,
come nelle fiabe, per lasciare traccia di sé a Lupo Rosso. Un
paradiso di ulivi, castagni, ciliegi, rododendri, torrenti, frullare
d’ali che accoglie Pin tra cielo e lembi di mare che appaiono e
scompaiono dietro le colline. Per meraviglie le colline di Pin
rivaleggiano con l’isola di Arturo, ed esse fanno da volano alle
fantasie e ai sogni eroici dei due bambini, entrambi abbandonati a se
stessi. Se però nell’opera della Morante c’è la struggente
consapevolezza che quel paradiso terrestre rievocato da Arturo è un
paradiso perduto come quello dell’infanzia ( “L’isola di
Arturo” viene scritta una decina d’anni dopo il Sentiero, a metà
degli anni 50, con speculazioni edilizie in corso), nel “Sentiero”
non si avvertono ancora insidie per quello stato di natura intatto.
In questo paesaggio favoloso, a
ridosso del vecchio paese di carrugi bui e maleodoranti dove Pin,
orfano dei genitori, vive con la sorella prostituta, la Nera di Carrugio Lungo, si
intrecciano le avventure del piccolo e sfrontato vagabondo, con
quelle di una banda sgangherata di Resistenti , quella del Dritto,
variegata e alquanto ridicola.
Il Sentiero è un libro di
guerra, ma il fatto che a raccontarne gli avvenimenti tragici -
imboscate rastrellamenti tradimenti morti - sia Pin, attraverso il
suo sguardo di bambino vecchio, ingenuo e spietato insieme, rende
inusuale la prospettiva. I Resistenti , come nelle fiabe, sono
personaggi deformati : il cuoco dell’ accampamento partigiano, il
trotzkista Mancino, ha sempre sulle spalle un falchetto, Babeuf,
che rimanda ai poveri capponi di Renzo: più il cuoco gesticola
infervorato dalle sue stesse arringhe comuniste, che danno sui nervi
a tutti, più Babeuf svolazza su e giù per la sua spalla; e il
lettore di super gialli, Zena il Lungo, pigro al punto da non
portare mai pesi quando si marcia nonostante le sue spalle da
camallo, non smette di leggere neanche in battaglia: appoggia il
libro sul mitragliere nelle pause di lettura usando il pollice come
segnalibro e, al contrario di Mancino, coltiva sogni “liberisti”:
pensa di andarsene in America quando finirà la guerra. Anche gli
altri Resistenti non sono da meno in stramberia e inaffidabilità; e
Pin si ritrova con loro a fare vita d’accampamento, all’ombra di
una distesa di rododendri, tra episodi tragicomici di violenza e
sesso , dei quali subisce la fascinazione spesso senza afferrarne il
senso.
Sembrerebbe che tali personaggi
abbiano parecchio in comune con i personaggi grotteschi di tanti film
dei Coen ma solo apparentemente: per il disincanto con cui i due
registi americani osservano l’abisso umano essi sono irrecuperabili
nella loro idiozia; Calvino invece, pur deformandoli nei loro tic,
attraverso lo sguardo straniante di Pin, disvela, dietro tali
stramberie, in un’alternanza di finzione e realtà, vite cariche
di “un’umanità ribollente di spietatezza e di natura” di
cuochi, camerieri, contadini, ex carabinieri, che sperano, anche se
confusamente, in un futuro migliore che ne riscatti le sofferenze .
Il capitolo IX, il cosiddetto
capitolo “ideologico”, ha una sua utilità nel rappresentare
l’idea che lo scrittore ha della guerra e di quanto essa gli sia
incomprensibile, così come è incomprensibile al bambino il mondo
degli adulti;“l’euforia di poter ricominciare da zero” propria
di quegli anni, di chi crede nel progresso della storia che, anche
con i suoi tempi lunghi, sarà portatrice di un futuro di uguaglianza
democrazia libertà. Inoltre in tale capitolo, Calvino rende nota la
sua posizione verso chi si è ritrovato a combattere dall’altra
parte: la parte sbagliata; ed essa non è di condanna manichea,
perché, anche in questo caso, si sono affidate speranze a
ideologie: ”solo la morte dava alle loro
scelte un segno irrevocabile”.
Nel “Sentiero” già si
respira aria di Leggerezza: il valore letterario cui lo scrittore
dedicherà la prima delle “Lezioni americane”. Ne cito un
passaggio: “Mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra,
come mi succede ogni volta che tento una rievocazione
storico-autobiografica ( e il Sentiero è tale) ecco che Perseo mi
viene in soccorso”. E infatti come Perseo, volando con i suoi
calzari alati, riesce a decapitare la Medusa non guardandola
direttamente ma guardandone l’immagine riflessa nello scudo, così
Calvino si serve di uno “sguardo di scorcio”: gli occhi di un
bambino, per raccontare la sua esperienza della Resistenza,
sfrondandola da pesantezze retoriche, senza farsi “pietrificare”
dall’ideologia. Ancora dalle Lezioni americane: “È in un rifiuto
della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un
rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di
vivere, non fughe nel sogno o nell’irrazionale, bensì nel guardare
il mondo con un’altra ottica, un’altra logica …”. Celandosi
dietro la visione indiretta dello sguardo di Pin, Calvino può
alternare finzione e realtà pur non perdendo mai di vista gli
orrori di quest’ultima: orrori filtrati dall’ingenuità del
bambino, che evita all’autore derive patetiche. E grazie al fatto
che a narrare è un bambino, Calvino, pur aderendo ai temi
realistico-sociali del neorealismo, può sottrarsi agli “imperativi
categorici dell’epoca” di celebrazione agiografica della
Resistenza , mantenendo la libertà di interpretare gli eventi senza
farsene, per l’appunto, “pietrificare”. Ne risulta una
scrittura leggera, colorita dal dialetto e immediata . Scrittura che,
pur nutrendosi di fatti, ne elude “l’opacità e la vischiosità“
plasmandoli al suo “ritmo interiore picaresco”; ed essa assume,
nel vortice e nelle “giravolte” incalzanti degli avvenimenti,
“l’agilità scattante e tagliente”, realizzando l’altro
valore da lui espresso nelle celebri Lezioni americane: la Rapidità.
Così “Il Sentiero” - prima
opera di Calvino- scritto nel 1946, contiene valori letterari
rappresentati nelle Lezioni americane, scritte nel 1985, che
l’autore intendeva portare , come valori imperdibili della
letteratura, nel nuovo millennio allora alle porte, e che erano
stati la sua cifra identitaria lungo l’arco di “quarant’anni
di scrittura di fiction”.
Il
critico Pietro Citati, grande amico di Calvino, raccontava in un’
intervista: “Due anni dopo la morte di Italo l’ho sognato. Lui
mi diceva che non era morto. Mi diceva che il tragico non è la forma
essenziale del mondo”.
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