martedì 24 maggio 2016

Italia, Sardegna, Canne al vento...



Martedì 12 aprile ci siamo incontrati per parlare di “Canne al vento” di Grazia Deledda, prima immersione nella letteratura italiana dopo tanti titoli stranieri. La cena a tema è stata all'altezza della tradizione: pane carasau in abbondanza, crema di tonno (siciliano, piccola deroga), splendidi gnocchetti con salsiccia e pecorino, vino Vermentino e Cannonau. Infine, dei dolci morbidi a forma di caramelle fatti con il miele e le mandorle. Secondo la ricetta non dovevano venire così, ma erano squisiti lo stesso.
Anzitutto abbiamo parlato della sorpresa (per molti di noi dovuta a semplice ignoranza) di essersi trovati davanti a un racconto solo apparentemente naturalista/verista, intriso di magia e di atmosfere decadenti, non solo nel senso proprio della parola riferita alla decadenza materiale della famiglia Pintor, ma anche in quello stilistico: decadentismo dei contenuti allusivi e malinconicamente pessimisti, come le parole che li evocano.

Galte è il paese in cui è ambientato il romanzo (o novella? o lungo racconto ?). È un nome di fantasia ma allude a Galtellì, antica baronìa e sede vescovile del nuorese, alle pendici del monte Tuttavista.
Il territorio di Galte è funestato dalla malaria che ha origine nelle paludi del fiume Cedrino.
La malaria affligge con le sue febbri ricorrenti Efix, ovvero il protagonista del romanzo, che ci viene incontro alla prima riga, insieme alle dame Pintor, di cui è il servo.
Lo seguiamo nel “poderetto” in collina che ancora gestisce per le sue dame: Ester, Ruth, Noemi. Ce n'era un'altra, Lia, l'ultima, che però è fuggita anni addietro nel Continente.
Efix non riceve compenso per il suo lavoro: le dame sono in rovina e mantenere il podere è una forma di resistenza al disastro, tacitamente accettata dalle parti.
Come tutti nel paese, Efix sente numerose presenze magiche intorno a sé: sono le “panas” (donne morte di parto); il folletto con sette berretti che fugge per il bosco inseguito da vampiri con la coda d'acciaio; le “janas”, piccole fate cattive; giganti che si affacciano tra le montagne: “tutto un mondo di creature che anima le colline e le valli”.
Una pittrice oggi novantenne, Bonaria Manca, originaria di Orune, nel nuorese, ha dipinto le pareti della sua casa di Tuscania con gli oggetti della memoria. C'è anche un essere misterioso, che lei chiama “Eknokeo”, un gigante. Eccolo:


Torniamo ad Efix: attraverso i suoi ricordi, che animano le sue faticose giornate, conosciamo tutti i Pintor, compresi i genitori delle dame, donna Maria Cristina e don Zame “rosso e violento”, morto in circostanze misteriose su cui il paese mormora da sempre e che verranno svelate pienamente verso la fine del libro, le quattro figlie che il padre non voleva far sposare se non a uomini degni di loro. Dopo la morte del padre e la fuga di Lia, le tre nubili si sono chiuse sempre di più nel loro arcaico mondo. Solo una volta all'anno l'universo chiuso di Galte partecipa al rito quasi dionisiaco della festa intorno alla chiesa di San Pietro, dove si fanno fuochi, si canta , si balla, si intrecciano sguardi e, soprattutto, si ride. Così è oggi la chiesa:


In questo microcosmo in disfacimento arriva, come un sasso tirato nello stagno, la notizia del prossimo arrivo di Giacinto, figlio di Lia, la quarta figlia Pintor, quella fuggita nel Continente. La storia si dipana da questo momento in poi intorno a questa sorta di “deus ex machina”, bello, ingenuo, straniero e tuttavia legato per via di sangue a queste terre. A differenza della tragedia greca, dove il “deus ex machina” arrivava per risolvere, intorno a Giacinto (che naturalmente è squattrinato), tutto si complica e presto si assiste – come direbbe Freud – al “ritorno del rimosso”: il desiderio sessuale fa ribollire il sangue, le passioni prorompono, il giovane diviene oggetto delle tante aspettative represse per tanti tanti anni. Forse - ci siamo detti - è questa l'ossatura del racconto: come i vari personaggi fanno fronte (o soccombono) a questo scatenarsi delle passioni.
Poco a poco la rovina si abbatte anche su Giacinto, le aspettative si sgonfiano e pian piano si annuncia la tragedia finale che però arriverà diluita e dai toni smorzati, come se il fatalismo che pervade il romanzo sia mitigato proprio dalla capacità di (quasi) tutti di essere “canne al vento”, battute, strapazzate e fustigate ma ben radicate nella terra arida da cui traggono sostanza.

Restano profondamente impressi i personaggi, descritti con grande efficacia: Efix, eroe biblico e omerico, le tre dame (le Tre Parche...), Giacinto, il più “canna al vento” di tutti, il possente Don Predu, che con la sua possente vitalità riesce alla fine a convincere Noemi a sposarlo.
Sarebbe troppo lungo parlare delle protagoniste femminili: Deledda conosce bene e rappresenta in tutta la sua complessità quell'universo femminile di inizio secolo, stretto da una società paternalista e repressiva. Ne è scappata per tempo, non vi tornerà mai più, ma non possiamo fare a meno di lei per conoscerlo.
Grazia Deledda (Nuoro 1871-Roma 1936) scrive “Canne al vento” nel 1913 dopo che si è trasferita a Roma nel 1900, in seguito al matrimonio. Scrisse moltissimo, aiutata in ciò dalla scarsa frequentazione di salotti letterari.
Ricevette il Nobel nel 1926, secondo scrittore italiano dopo Carducci. Questa la motivazione:
Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.