Martedì 12 aprile ci siamo
incontrati per parlare di “Canne al vento” di Grazia Deledda,
prima immersione nella letteratura italiana dopo tanti titoli
stranieri. La cena a tema è stata all'altezza della tradizione: pane
carasau in abbondanza, crema di tonno (siciliano, piccola deroga),
splendidi gnocchetti con salsiccia e pecorino, vino Vermentino e
Cannonau. Infine, dei dolci morbidi a forma di caramelle fatti con il
miele e le mandorle. Secondo la ricetta non dovevano venire così, ma
erano squisiti lo stesso.
Anzitutto abbiamo parlato
della sorpresa (per molti di noi dovuta a semplice ignoranza) di
essersi trovati davanti a un racconto solo apparentemente
naturalista/verista, intriso di magia e di atmosfere decadenti, non
solo nel senso proprio della parola riferita alla decadenza materiale
della famiglia Pintor, ma anche in quello stilistico: decadentismo
dei contenuti allusivi e malinconicamente pessimisti, come le parole
che li evocano.
Galte è il paese in cui è
ambientato il romanzo (o novella? o lungo racconto ?). È un nome di
fantasia ma allude a Galtellì, antica baronìa e sede vescovile del
nuorese, alle pendici del monte Tuttavista.
Il territorio di Galte è
funestato dalla malaria che ha origine nelle paludi del fiume
Cedrino.
La malaria affligge con le
sue febbri ricorrenti Efix, ovvero il protagonista del romanzo, che
ci viene incontro alla prima riga, insieme alle dame Pintor, di cui è
il servo.
Lo seguiamo nel “poderetto”
in collina che ancora gestisce per le sue dame: Ester, Ruth, Noemi.
Ce n'era un'altra, Lia, l'ultima, che però è fuggita anni addietro
nel Continente.
Efix non riceve compenso per
il suo lavoro: le dame sono in rovina e mantenere il podere è una
forma di resistenza al disastro, tacitamente accettata dalle parti.
Come tutti nel paese, Efix
sente numerose presenze magiche intorno a sé: sono le “panas”
(donne morte di parto); il folletto con sette berretti che fugge per
il bosco inseguito da vampiri con la coda d'acciaio; le “janas”,
piccole fate cattive; giganti che si affacciano tra le montagne:
“tutto un mondo di creature che anima le colline e le valli”.
Una
pittrice oggi novantenne, Bonaria Manca, originaria di Orune, nel
nuorese, ha dipinto le pareti della sua casa di Tuscania con gli
oggetti della memoria. C'è anche un essere misterioso, che lei
chiama “Eknokeo”, un gigante. Eccolo:
In questo microcosmo in
disfacimento arriva, come un sasso tirato nello stagno, la notizia
del prossimo arrivo di Giacinto, figlio di Lia, la quarta figlia
Pintor, quella fuggita nel Continente. La storia si dipana da questo
momento in poi intorno a questa sorta di “deus ex machina”,
bello, ingenuo, straniero e tuttavia legato per via di sangue a
queste terre. A differenza della tragedia greca, dove il “deus ex
machina” arrivava per risolvere, intorno a Giacinto (che
naturalmente è squattrinato), tutto si complica e presto si assiste
– come direbbe Freud – al “ritorno del rimosso”: il desiderio
sessuale fa ribollire il sangue, le passioni prorompono, il giovane
diviene oggetto delle tante aspettative represse per tanti tanti
anni. Forse - ci siamo detti - è questa l'ossatura del racconto: come i vari personaggi
fanno fronte (o soccombono) a questo scatenarsi delle passioni.
Poco a poco la rovina si
abbatte anche su Giacinto, le aspettative si sgonfiano e pian piano
si annuncia la tragedia finale che però arriverà diluita e dai toni
smorzati, come se il fatalismo che pervade il romanzo sia mitigato
proprio dalla capacità di (quasi) tutti di essere “canne al
vento”, battute, strapazzate e fustigate ma ben radicate nella
terra arida da cui traggono sostanza.
Restano
profondamente impressi i personaggi, descritti con grande efficacia:
Efix, eroe biblico e omerico, le tre dame (le Tre Parche...),
Giacinto, il più “canna al vento” di tutti, il possente Don
Predu, che con la sua possente vitalità riesce alla fine a
convincere Noemi a sposarlo.
Sarebbe troppo lungo parlare delle protagoniste femminili: Deledda
conosce bene e rappresenta in tutta la sua complessità
quell'universo femminile di inizio secolo, stretto da una società
paternalista e repressiva. Ne è scappata per tempo, non vi tornerà
mai più, ma non possiamo fare a meno di lei per conoscerlo.
Grazia Deledda (Nuoro 1871-Roma 1936) scrive “Canne al vento” nel
1913 dopo che si è trasferita a Roma nel 1900, in seguito al
matrimonio. Scrisse moltissimo, aiutata in ciò dalla scarsa
frequentazione di salotti letterari.
Ricevette il Nobel nel 1926, secondo scrittore italiano dopo
Carducci. Questa la motivazione:
Per
la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae
in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale
e che con profondità e con calore tratta problemi di generale
interesse umano.