martedì 7 giugno 2016

Zorba, l'uomo, la carne, la morte e il diavolo

Il titolo allude a quello di un celebre saggio di Mario Praz, “La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica” non perché Alexis Zorba, il protagonista di “Zorba il greco” di Nikos Kazantzakis, sia un eroe romantico ma perché sicuramente con la carne, la morte e il diavolo ha molto a che fare. Perché ha a che fare con la vita.
Tra l'altro siamo arrivati a lui proprio per un'assonanza con “Canne al vento”, nostra lettura immediatamente precedente, anche quello romanzo di carne e sangue, e perché si svolge su un'altra isola del Mediterraneo, grande e importante come la Sardegna, Creta.

Dice Zorba a un certo punto, al suo “padrone” che è l'io narrante: “Anche il corpo ha un'anima: abbine pietà. Dalle qualcosa da mangiare, padrone, dalle qualcosa. È la nostra bestia da soma, non lo sai? Se non la nutriamo a dovere ci lascerà a terra nel bel mezzo della strada”.

Per il 17 maggio dunque, come da tradizione, cena greca, tzatziki, olive, pomodori, pastitzio, e una buona dose di retsina e ouzo, molta nostalgia delle taverne greche per chi le conosce.... e naturalmente la musica di Mikis Theodorakis.

Da subito, Zorba ci appare come l'alter ego del protagonista che fortuitamente lo incontra al Pireo mentre sta per imbarcarsi per Creta per un affare che li legherà poi indissolubilmente.
Grande anarchico Alexis, quanto ponderato, riflessivo, inibito è Nikos (lo possiamo chiamare così, con il nome dello scrittore, visto che è di lui che si tratta). Nikos è un intellettuale, uno “scribacchino”; lo immaginiamo verso i trent'anni, vestito con proprietà e sempre in conflitto con la materia delle sue ricerche: tra tutte risalta uno scritto sul Buddha, sua croce e delizia. “Carne non esposta al sole” lo definirà Zorba.
Partono insieme, durante la notte il mare è agitato ma al mattino è calmo e color indaco, scenario perfetto per l'apparizione della “grande isola sovrana”. 


Zorba inizia il racconto di sé, della sua vita avventurosa, dalla Macedonia, dove è nato, a Creta, dove è già stato prima di ora a combattere insieme ai ribelli cretesi contro i turchi. Ha ucciso, anche barbaramente. È stato un brigante. Ora è contro la guerra. Anche se porta, come in quel caso, la libertà.
Sull'isola trovano da dormire nelle stanze affittate da Madame Hortense, una chanteuse che sotto il trucco pesante nasconde un'anima bambina e passionale. Zorba la farà felice, adulandola per amore e per rispetto della sua umanità. La chiamerà sirena e ninfa del mare e per lei sarà credibile, e questo è quel che conta. Del resto, dietro ogni donna per lui c'è Venere, la Donna.
Nell'isola, al di là dei suoi racconti, semplicemente guardandolo, Nikos conosce davvero Zorba. Prova un'ammirazione sconfinata per il suo sguardo primigenio sul mondo: “Tutte le cose sbiadite dalla consuetudine quotidiana riacquistavano lo splendore che avevano i primi giorni, appena uscite dalle mani di Dio”. Zorba balla in riva al mare come un uccello e in poche occasioni, tirandolo fuori con delicatezza dalla sua custodia di stoffa, suona il salterio. Il ballo e la musica sono la sua seconda natura.
I due lavorano insieme per la miniera di lignite, Nikos è il padrone, Zorba il primo dei lavoranti. Si integrano nella comunità locale ognuno a suo modo. Ci sono storie efferate che accadono, come quella della vedova seduttrice che si muove come il personaggio di una tragedia, i monaci fuori di testa e con la tunica bisunta che ricordano certi preti russi di Dostoevskij, ci sono i benpensanti, i misogini, i poveri di spirito... una comunità dai tratti universali.
Tra i dubbi esistenziali dello “scribacchino” e le potenti visioni del brigante, che ogni volta che guarda il cielo stellato lo vede per la prima volta, ne è soggiogato e lo descrive come un profeta, si dipana la storia cretese dei due, destinata ad interrompersi in modo drammatico.

Sappiamo che Zorba, anzi Zorbàs, è un personaggio reale: Kazantzakis lo conobbe sul Monte Athos nel 1914, mentre era lì come visitatore. Zorbàs, che si chiamava Jorghis, era un taglialegna. Divennero amici e collaboratori e realmente lavorarono in una miniera di lignite, come quella del romanzo, ma nel Mani (Peloponneso). Lo scrittore lo portò con sé nel 1917 nel Caucaso, per una missione politica (riportare in Grecia gli elleni che vivevano lì da epoche lontanissime). Si separarono nel 1920 e nel 1942 Kazantzakis venne a sapere da un maestro di Skopje che Zorbàs era morto. Ma “Nulla di suo era morto in me. Come se tutto ciò che aveva toccato Zorbàs fosse diventato immortale”. Scrisse così, nel 1943, a Egina, in quarantacinque giorni, “Vita e opere di Alexis Zorbàs” (divenuto poi, nella traduzione inglese, “Zorba the Greek”).


Una piccola curiosità legata al Premio Nobel. Nikos Kazantzakis, uomo di cultura vastissima, instancabile viaggiatore e prolificissimo scrittore, nonché traduttore dal greco antico al neogreco dell'Iliade e dell'Odissea, autore di una monumentale Storia della letteratura russa e della traduzione della Divina Commedia, è andato molto vicino all'assegnazione del Premio.
Lo scrittore morì nel 1957. Proprio in quell'anno, il premio veniva assegnato ad Albert Camus, per un solo voto di differenza. Due anni dopo, il 16 marzo 1959, Camus scrive a Eleni Kazantzakis
Nutrivo una grande ammirazione e se mi consente una sorta di affetto per l'opera di suo marito. Non dimenticherò mai che, proprio nel giorno in cui mio malgrado ricevevo un riconoscimento che Kazantzakis meritava cento volte più di me, ho ricevuto un suo telegramma tra i più magnanimi.”

Sulla tomba di Nikos Kazantzakis, a Heraklion, c'è un motto – si direbbe – inventato da Zorba:


Non mi aspetto nulla. Non temo nulla. Sono libero