lunedì 11 luglio 2016

Di nuovo nel Mediterraneo alla ricerca del padre
Il primo uomo di Albert Camus

non ho mai potuto rinunciare alla luce, alla felicità di esistere, alla vita libera in cui sono cresciuto



Un po' vittime un po' complici della nostra storia, ci siamo imbattuti in un altro Nobel. Il passaggio è stato guidato dalla nostra lettura precedente, Zorba il greco: nel 1957 infatti, Nikos Katzantzakis, l'autore di Zorba, aveva mancato il premio per un solo punto. L'aveva vinto Camus, che gli scrisse una lettera molto bella. E allora, Camus.
Dello scrittore franco-algerino abbiamo scelto Il primo uomo e di questo abbiamo discusso durante il nostro incontro del 14 giugno. Due di noi hanno letto Lo straniero e magari poi, se ne avranno voglia, aggiungeranno un post per tutto il gruppo.
Il primo uomo ci è piaciuto moltissimo, tanto che alcune sere dopo abbiamo organizzato un piccolo cine-club per vedere il film di Gianni Amelio.

Camus è un gigante, senza se e senza ma. Si laurea in filosofia nel 1936 con una tesi sui rapporti tra Ellenismo e Cristianesimo nelle opere di Plotino e S. Agostino (Metafisica cristiana ed ellenismo) proprio quando l'Europa sta per sprofondare nel baratro della seconda guerra mondiale. Camus, nato nel 1913, aveva già da tempo fatto i conti con il dolore: aveva contratto la tubercolosi, considerata ai tempi inguaribile, che lo riprenderà diverse volte, e aveva perso suo padre, morto giovanissimo nella battaglia della Marna, durante la prima guerra mondiale, nell'ottobre del 1914.
Nel 1937 abbandona il Partito Comunista cui aveva aderito nel '34, continua gli studi di filosofia e, tra ritorni ad Algeri e soggiorni parigini, entra nella Resistenza. Nel 1943 viene pubblicato Lo straniero. La rottura con Sartre si consuma tra il 1951 e il 1953 e le bordate che spararono l'uno contro l'altro sono leggenda, ma qui non entriamo nel dettaglio. Piuttosto, attraverso alcuni brani del discorso fatto durante il conferimento del premio, osserviamo, in un solo colpo d'occhio, l'uomo, lo scrittore, la sua morale, la sua azione (per inciso, prima della rottura, proprio questo disse di lui Sartre: "l'ammirevole congiunzione di una persona, di un'azione e di un'opera"). Ecco dunque alcune frasi:

La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono.
[...] Il silenzio di un prigioniero sconosciuto e umiliato all'altro capo del mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell'arte.
[…] Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della sua vita […] lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione. Essere al servizio della verità e della libertà.
[…] Qualunque siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all'oppressione.

Poi questa, di lucidità implacabile:
Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà.

E infine:
La verità è misteriosa, sfuggente, sempre da conquistare. La libertà è pericolosa, dura da vivere quanto esaltante. Dobbiamo marciare verso questi due obiettivi, con fatica ma decisi, ben consci dei nostri errori in un così lungo cammino.

Il primo uomo è stato pubblicato postumo nel 1994, a cura della figlia Catherine, sulla base di un manoscritto che si trovava in una sacca nell'automobile in cui Camus trovò la morte nell'incidente del 4 gennaio del 1960. Da quanto risulta dalla sua biografia, è un libro scritto in un momento molto difficile: la rottura con Sartre e le polemiche seguite al conferimento del Nobel lo fanno sentire sempre più isolato. Ha forse bisogno di tornare a sé e – come dice sua figlia “per dire chi è dice da dove viene”. Il “dove” è l'Algeria, Mondovi, la povera stanza in cui è nato in una notte di violenti temporali, è Belcourt, il sobborgo operaio di Algeri, dove la madre si sposta con la famiglia e dove la raggiunge la notizia della morte del marito.
Ma questo “dove” è inscritto in un altro, più grande, quello del “primo uomo” ed è il mondo indicibilmente duro, ricolmo di conflitti, di odio, di malattia e di morte che i francesi si trovano davanti quando sbarcano come coloni nel 1848: invece della terra promessa che si aspettavano si ritrovano letteralmente in una palude, in balia delle piogge, delle continue incursioni degli arabi che li vogliono cacciare, dei leoni di Numidia (quelli con la criniera nera, come è specificato nei taccuini aggiunti al racconto) che ruggiscono di notte fuori delle tende in cui i coloni si sono accampati nella più totale promiscuità e in condizioni di igiene disastrose. Ci vogliono almeno quattro anni perché dalle tende passino alle case e si stabiliscano in una convivenza sempre difficile con la popolazione araba locale. Circa un secolo dopo, gli algerini si liberano attraverso una guerra cruentissima, che dura dal 1954 al 1962, in seguito alla quale la stragrande maggioranza dei francesi pieds noirs, come erano appunto i Camus, lasciano il paese. Non così la madre dello scrittore, che rimane ad Algeri.
Camus scrive questo suo ultimo romanzo mentre tutto ciò sta avvenendo, mentre il suo “dove” si sgretola e la sua posizione è incompresa da tutte e due le parti: per lui non c'era differenza tra un povero arabo e un povero francese, Algeria araba e Algeria francese erano la stessa cosa, cioè il suo paese, il suo sole, il suo mare, la struggente bellezza dei pomeriggi di gioco sfrenato di quando era bambino....
Fermiamoci qui perché è impossibile riassumere tutto quello che ci sarebbe da dire intorno al libro e alla figura di questo grande intellettuale e torniamo alla trama del libro, a prima vista sfilacciata poi sempre più coinvolgente e incredibilmente commovente.
L'inizio – quello che ha colpito molti di noi – è quasi epico, con il calesse carico di bauli che si fa strada nella tempesta per consegnare infine una stremata partoriente in una casa sconosciuta nelle mani di alcune donne sconosciute che l'aiutano a “fare da sé” ben prima che arrivi il dottore. È la madre di Camus, Catherine, e inizia così il suo soggiorno in Algeria.
Secondo capitolo. Jacques Cormery (alias dello scrittore) è a Saint-Brieuc, in Francia, cercando la tomba di suo padre Henry, morto nell'ottobre del 1914. Trova la tomba, fa un rapido calcolo: suo padre aveva ventinove anni quando morì, lui ne ha quaranta.
Parte allora la ricerca del parte, suscitata dal desiderio di ridare dignità di memoria a questo povero morto dimenticato, cercare di scoprire chi era.
Ritorno ad Algeri, dialoghi con la madre amatissima, sempre distante nella sua quasi sordità, recupero a poco a poco di tutta l'infanzia, un'infanzia in cui un padre non c'è. C'è una nonna tagliata con l'accetta, pilastro della casa, terrificante nelle sue punizioni, c'è uno zio, strano di testa ma molto bello, c'è un maestro intelligente che permetterà a Jacques lo scarto decisivo, quello dell'emancipazione attraverso la studio, la scuola. Tutto ciò con una scrittura attaccata agli esseri umani, a quel che sono e a quel che diventano, che ne restituisce in modo quadrimensionale la figura, per noi che non c'eravamo, lì, nella polvere assolata di Belcourt ma che a fine lettura sapremmo quasi descrivere l'odore della nonna, di Pierre, l'amico che lo accompagna fino alla fine. E soprattutto non dimenticheremo mai il senso profondo della solidarietà dell'uomo che scrive verso il mondo che ha abitato: mai esibita come una medaglia ma anzi vissuta attraverso dubbi e conflitti, perseguita quasi come se avesse in sé una necessità superiore, l'unica possibilità di riscatto che ha l'uomo per giustificare la sua permanenza in un mondo assurdo.

“Solitaire – solidaire” lo descrive la figlia, forse Camus è tutto in questa antinomia.

Camus con i figli Catherine e Jean