“La lingua salvata. Storia di una giovinezza” è il primo volume, comparso
nel 1977, di un'autobiografia in tre parti (le altre sono: “Il
frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-31)” e “Il gioco degli
occhi. Storia di una vita (1931-37)”.
È dunque l'autobiografia dell'infanzia e dell'adolescenza di Elias Canetti, nato a Rustschuck (Ruse) in Bulgaria nel 1905. Tre anni dopo la sua nascita il suo paese diventava indipendente e poco dopo cominciavano le guerre balcaniche, da cui la Bulgaria uscì con un forte ridimensionamento territoriale.
La madre decide di insegnargli il tedesco. Glielo insegnerà senza ricorrere ad alcun sussidio didattico ma basandosi esclusivamente sull’oralità, sull’ascolto e la ripetizione di parole e frasi di cui Elias non comprendeva il significato. Possiamo immaginare i suoi balbettii incerti come quelli di un neonato. Il percorso fu lungo e doloroso ma alla fine lo condusse ad una seconda nascita non solo linguistica ma anche affettiva. Molto presto Elias Canetti iniziò a scrivere e lo lo fece in tedesco, la traduzione si compì spontaneamente nel suo inconscio.
Il libro procede come un mosaico di scene significative, piccoli aneddoti e scene tragiche, considerazioni (tasselli) su quello che una determinata scelta, un determinato episodio hanno provocato in futuro: alcuni di noi hanno visto in questo ricordare un andamento meccanico e poco in sintonia con la quantità di questioni emotive che vengono sollevate. E c'è sicuramente una differenza tra prima parte del libro, molto più vivace, con un'impronta quasi favolistica ed esotica, e la seconda parte, più “manualistica” ed elencativa, in cui gli avvenimenti (e persino le emozioni) sono trattati con un distacco “scientifico”, da entomologo, da esperto di “fenomenologia degli spinaci” come lo chiamava sarcasticamente la madre quando le sue passioni letterarie, da lei coltivate nel figlio, vengono offuscate da un interesse per la scienza.
Due citazioni per terminare: una fa parte della lunga storia dell'amore tormentato con la madre e ci dà il senso della complessità di questo legame, della “forma” della personalità di Canetti così come è forgiata da questo rapporto, e l'altra è la citazione di un brano che era molto piaciuto a Caterina Nodaro e che invece dà il senso di cosa è per lui l'educazione in rapporto agli insegnanti.
È dunque l'autobiografia dell'infanzia e dell'adolescenza di Elias Canetti, nato a Rustschuck (Ruse) in Bulgaria nel 1905. Tre anni dopo la sua nascita il suo paese diventava indipendente e poco dopo cominciavano le guerre balcaniche, da cui la Bulgaria uscì con un forte ridimensionamento territoriale.
Balcanica
in età moderna e ottomana per cinque lunghi secoli, la Bulgaria è
dunque una terra multiculturale e ha un rapporto pacifico con gli
ebrei (Canetti è un ebreo di doppia origine sefardita, per via di
padre e per via di madre): durante l'impero ottomano non c'erano
ghetti e anzi il paese si era aperto agli ebrei espulsi dalla Spagna.
Un atteggiamento di apertura che continua anche in epoca di
persecuzioni naziste: Hannah Arendt ricorda ne “La banalità del
male” che nel 1943 il metropolita ortodosso nascose il rabbino capo
mentre la popolazione e il parlamento si opponevano alla deportazione
degli ebrei arrivando a tentare di fermare un treno diretto verso i
campi di sterminio.
Chiudiamo
qui le divagazioni storiche e introduciamo Canetti con le sue stesse
parole: è l'incipit di "Auto da fé", l'unico
suo romanzo, del 1935 (ma pubblicato nel 1963):
Che fai qui bambino?
Niente.
E allora perché ci stai?
Così...
Sai già leggere?
Oh sì.
Quanti anni hai?
Nove compiuti
Cosa ti piace di più:
una tavoletta di cioccolata o un libro?
Un libro.
Dopo
questo strano e arduo romanzo, definito
da Thomas Mann “protervo e grandioso”,
che
non fu capito e che è stato infatti pubblicato trent’anni dopo,
Elias sente il bisogno di scrivere
un racconto autobiografico. Al contrario del romanzo è un libro di
facile lettura. Almeno apparentemente...
Si parte da Rustschuck e ci si immerge nel paradiso:
Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una
città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do
un'immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano
persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano
sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano
dalla campagna, c'erano molti turchi, che abitavano in un quartiere
tutto per loro, che confinava col quartiere degli «spagnoli» dove
stavamo noi. C'erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva
opposta del fiume venivano i rumeni, e la mia balia, di cui però non
mi ricordo, era una rumena. C'era anche qualche russo, ma erano casi
isolati.
Essendo un bambino non avevo una chiara visione di questa molteplicità ma ne
vivevo continuamente gli effetti.
In quest'ultima frase c'è forse il senso di tutto il libro, che in
fondo non è altro che la storia di una educazione dentro alla molteplicità (parola chiave) delle culture e delle lingue.
Un imprinting che ha prodotto un intellettuale, l'ultimo intellettuale
del Novecento come è stato definito, allergico ai grandi sistemi
teorici del suo secolo:
in primis
psicoanalisi e marxismo. Quasi un intellettuale “contro”,
difficile da collocare criticamente.
Continuiamo a divagare.... ma forse è l'unico modo per affrontare la scrittura
di Canetti che sembra apparentemente molto organizzata, per moduli,
per storie, per personaggi, ma che in realtà funziona come un tronco
da cui partono rami da cui partono altri rami da cui ne partono
altri, dove il fatto descritto non è che il nucleo di tasselli che
vi si incastrano variamente.
Anzitutto facciamo la conoscenza della famiglia, delle case in cui vivevano i
suoi membri, dell'impareggiabile nonno paterno che si vanta di
conoscere otto lingue (anche se in modo più che zoppicante) e che
racconta con orgoglio di aver salvato la vita a un mercante su un
battello del Danubio perché era riuscito ad orecchiare due uomini
che volevano ucciderlo. Gli uomini parlavano greco, la lingua di
Salonicco, città dove tanti ebrei della diaspora spagnola erano
approdati.
E lo spagnolo è la lingua che il piccolo Elias sente parlare in casa,
uno spagnolo arcaico, risalente alla cacciata di fine '400.
E poi gli zingari, la paura e il fascino degli zingari che una volta
alla settimana, il venerdì, arrivavano in un grande corteo con a
capo il patriarca cieco, e avevano vesti colorate in cui dominava il
rosso. Si sedevano nel cortile di casa Canetti e lì aspettavano doni
e cibarie provenienti dalla cucina ebraica di quella casa, in
attività per la cena dello Shabbat.
E poi, soprattutto, facciamo la conoscenza del personaggio centrale,
Mathilde Arditti, la madre di Canetti, che lo forma, letteralmente. E
lo forma attraverso la letteratura, anzi, attraverso i grandi
personaggi della letteratura che secondo lei erano gli unici
strumenti per una appassionata conoscenza degli uomini. La madre
parla con il padre, Jaques Canetti, una lingua particolare, il
tedesco, usata nei loro “felici anni di studio a Vienna”. Un
linguaggio d'amore, che il figlio conoscerà molto più tardi e che
sarà appunto – la lingua salvata.
Insomma, le prime pagine del libro ci restituiscono una vivacissima e
molteplice vita di bambino, arricchita dalle favole popolari che gli
raccontano le ragazze bulgare che venivano a prestare servizio in
casa Canetti dalla campagna, storie piene di fantasmi e lupi mannari,
cavalli e lupi che attraversano il Danubio ghiacciato.
Tutto ciò fino al 1911, quando la famiglia si trasferisce a Manchester in
seguito alla decisione del padre di seguire gli affari di famiglia...
Comincia la carriera scolastica di Elias, che tanta parte avrà nel libro, e
mentre impara con piacere la nuova lingua, la vita scorre tranquilla
e avvolta dall'amore incondizionato del padre, figura dolcissima la
cui tragica morte, per un improvviso attacco cardiaco, segna per
sempre le vicenda familiari. Forse è proprio da allora che Elias
dichiara guerra alla morte, e questa paradossale posizione –
difficile da sintetizzare nei suoi contenuti teorici – fornirà la
materia non solo al “Libro contro la morte”, ma anche alla
sterminata messe di note e appunti che confluiranno nel monumentale
“Massa e potere”, pubblicato nel 1960, al quale si era dedicato per 38
anni, dove la morte viene analizzata come uno strumento del potere.
La morte del padre avviene nel 1912 e da questo momento in poi avviene
la saldatura affettiva, intellettuale, psicologica con la madre. Un
rapporto simbiotico attorno al quale ruota tutto il libro e che
probabilmente si struttura proprio intorno alla grande “mancanza”
paterna. Secondo Luisa Marigliano, con la morte del padre la vita di
Elias cambia totalmente:
La madre decide di insegnargli il tedesco. Glielo insegnerà senza ricorrere ad alcun sussidio didattico ma basandosi esclusivamente sull’oralità, sull’ascolto e la ripetizione di parole e frasi di cui Elias non comprendeva il significato. Possiamo immaginare i suoi balbettii incerti come quelli di un neonato. Il percorso fu lungo e doloroso ma alla fine lo condusse ad una seconda nascita non solo linguistica ma anche affettiva. Molto presto Elias Canetti iniziò a scrivere e lo lo fece in tedesco, la traduzione si compì spontaneamente nel suo inconscio.
Il libro procede come un mosaico di scene significative, piccoli aneddoti e scene tragiche, considerazioni (tasselli) su quello che una determinata scelta, un determinato episodio hanno provocato in futuro: alcuni di noi hanno visto in questo ricordare un andamento meccanico e poco in sintonia con la quantità di questioni emotive che vengono sollevate. E c'è sicuramente una differenza tra prima parte del libro, molto più vivace, con un'impronta quasi favolistica ed esotica, e la seconda parte, più “manualistica” ed elencativa, in cui gli avvenimenti (e persino le emozioni) sono trattati con un distacco “scientifico”, da entomologo, da esperto di “fenomenologia degli spinaci” come lo chiamava sarcasticamente la madre quando le sue passioni letterarie, da lei coltivate nel figlio, vengono offuscate da un interesse per la scienza.
La passione per gli aspetti scientifici dell'esistere nasce in Svizzera
quando frequenta gli studi superiori.
Prima del soggiorno svizzero, Elias termina le elementari a Vienna. Qui
avviene un fatto saliente: per la prima volta sperimenta il potere
della massa: a soli nove anni, il primo agosto 1914, viene aggredito
insieme ai fratellini dalla folla inferocita perché aveva cantato
l'inno inglese in un parco proprio mentre veniva annunciato che la
Germania aveva dichiarato guerra alla Russia: “Io non compresi bene
che cosa avessi fatto di male; a maggior ragione, quindi, quella
prima esperienza di una massa ostile mi si impresse indelebilmente
nell’animo.”
Dicevamo della Svizzera: è l'approdo del libro, quello in cui matura il
distacco dalla madre, esito di un lungo dissidio amoroso marcato
dalle scelte intellettuali. È infatti l'epoca in cui Canetti
incontra una serie notevole di personaggi importanti dal punto di
vista intellettuale e in cui comincia ad avere – se così si può
dire – una sua idea del mondo.
La madre si ribella, crede che il figlio sia diventato un uomo staccato
dalla realtà, perso inutilmente in studi inutili. Sente che
l'educazione a una elevazione morale (questo era per lei il senso
della letteratura) è ormai finito, il figlio ha preso un'altra
strada. Stabilisce un trasferimento in Germania senza sentire
ragioni: la Germania è un paese che ha vissuto la guerra, può
togliergli i grilli da “fenomenologo degli spinaci” dalla testa e
dargli una dura scuola di realtà. Elias sente che la felicità è
perduta, la cacciata dal paradiso, come la chiama, inaugura la sua
vita di adulto.
Canetti con il "battaglione" di matite con cui scrive
Due citazioni per terminare: una fa parte della lunga storia dell'amore tormentato con la madre e ci dà il senso della complessità di questo legame, della “forma” della personalità di Canetti così come è forgiata da questo rapporto, e l'altra è la citazione di un brano che era molto piaciuto a Caterina Nodaro e che invece dà il senso di cosa è per lui l'educazione in rapporto agli insegnanti.
Allora non sapevo ancora cosa è la vastità , eppure la intuivo : il poter contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un suo ambito, e questo sentirlo senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chiamarlo col suo nome e meditarci sopra: ecco la cosa che proprio da mia madre ho imparato, ed è la vera gloria della natura umana.
La diversità degli insegnanti era sorprendente, è la prima forma di molteplicità di cui si prende coscienza nella vita. Il fatto che essi ci stiano davanti così a lungo, esposti in tutte le loro reazioni osservati ininterrottamente per ore e ore, oggetto dell'unico vero interesse della classe, impossibilitati a muoversi e dunque presenti in essa sempre per lo stesso tempo, esattamente delimitato; la loro superiorità di cui non si vuole prendere atto una volta per tutte e che rende acuto, critico e maligno lo sguardo di chi li osserva; […] e poi il segreto in cui rimane avvolto il resto della loro vita, in tutto il tempo durante il quale non stanno recitando la loro parte davanti a noi […] - come tutto questo agisce e si manifesta, è un'altra specie di scuola, del tutto diversa da quella dell'apprendimento, una scuola che insegna la molteplicità della natura umana, e purché la si prenda sul serio anche solo in parte, è questa la prima vera scuola di conoscenza dell'uomo.