giovedì 19 ottobre 2017

La lingua salvata - Elias Canetti



“La lingua salvata. Storia di una giovinezza” è il primo volume, comparso nel 1977, di un'autobiografia in tre parti (le altre sono: “Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-31)” e “Il gioco degli occhi. Storia di una vita (1931-37)”.
È dunque l'autobiografia dell'infanzia e dell'adolescenza di Elias Canetti, nato a Rustschuck (Ruse) in Bulgaria nel 1905. Tre anni dopo la sua nascita il suo paese diventava indipendente e poco dopo cominciavano le guerre balcaniche, da cui la Bulgaria uscì con un forte ridimensionamento territoriale.
Balcanica in età moderna e ottomana per cinque lunghi secoli, la Bulgaria è dunque una terra multiculturale e ha un rapporto pacifico con gli ebrei (Canetti è un ebreo di doppia origine sefardita, per via di padre e per via di madre): durante l'impero ottomano non c'erano ghetti e anzi il paese si era aperto agli ebrei espulsi dalla Spagna. Un atteggiamento di apertura che continua anche in epoca di persecuzioni naziste: Hannah Arendt ricorda ne “La banalità del male” che nel 1943 il metropolita ortodosso nascose il rabbino capo mentre la popolazione e il parlamento si opponevano alla deportazione degli ebrei arrivando a tentare di fermare un treno diretto verso i campi di sterminio.

Chiudiamo qui le divagazioni storiche e introduciamo Canetti con le sue stesse parole: è l'incipit di "Auto da fé", l'unico suo romanzo, del 1935 (ma pubblicato nel 1963):

Che fai qui bambino?
Niente.
E allora perché ci stai?
Così...
Sai già leggere?
Oh sì.
Quanti anni hai?
Nove compiuti
Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?
Un libro.

Dopo questo strano e arduo romanzo, definito da Thomas Mann “protervo e grandioso”,
che non fu capito e che è stato infatti pubblicato trent’anni dopo, Elias sente il bisogno di scrivere un racconto autobiografico. Al contrario del romanzo è un libro di facile lettura. Almeno apparentemente...

Si parte da Rustschuck e ci si immerge nel paradiso:

Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un'immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c'erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere degli «spagnoli» dove stavamo noi. C'erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i rumeni, e la mia balia, di cui però non mi ricordo, era una rumena. C'era anche qualche russo, ma erano casi isolati.
Essendo un bambino non avevo una chiara visione di questa molteplicità ma ne vivevo continuamente gli effetti.

In quest'ultima frase c'è forse il senso di tutto il libro, che in fondo non è altro che la storia di una educazione dentro alla molteplicità (parola chiave) delle culture e delle lingue. Un imprinting che ha prodotto un intellettuale, l'ultimo intellettuale del Novecento come è stato definito, allergico ai grandi sistemi teorici del suo secolo: in primis psicoanalisi e marxismo. Quasi un intellettuale “contro”, difficile da collocare criticamente. Continuiamo a divagare.... ma forse è l'unico modo per affrontare la scrittura di Canetti che sembra apparentemente molto organizzata, per moduli, per storie, per personaggi, ma che in realtà funziona come un tronco da cui partono rami da cui partono altri rami da cui ne partono altri, dove il fatto descritto non è che il nucleo di tasselli che vi si incastrano variamente. Anzitutto facciamo la conoscenza della famiglia, delle case in cui vivevano i suoi membri, dell'impareggiabile nonno paterno che si vanta di conoscere otto lingue (anche se in modo più che zoppicante) e che racconta con orgoglio di aver salvato la vita a un mercante su un battello del Danubio perché era riuscito ad orecchiare due uomini che volevano ucciderlo. Gli uomini parlavano greco, la lingua di Salonicco, città dove tanti ebrei della diaspora spagnola erano approdati. E lo spagnolo è la lingua che il piccolo Elias sente parlare in casa, uno spagnolo arcaico, risalente alla cacciata di fine '400.
E poi gli zingari, la paura e il fascino degli zingari che una volta alla settimana, il venerdì, arrivavano in un grande corteo con a capo il patriarca cieco, e avevano vesti colorate in cui dominava il rosso. Si sedevano nel cortile di casa Canetti e lì aspettavano doni e cibarie provenienti dalla cucina ebraica di quella casa, in attività per la cena dello Shabbat.
E poi, soprattutto, facciamo la conoscenza del personaggio centrale, Mathilde Arditti, la madre di Canetti, che lo forma, letteralmente. E lo forma attraverso la letteratura, anzi, attraverso i grandi personaggi della letteratura che secondo lei erano gli unici strumenti per una appassionata conoscenza degli uomini. La madre parla con il padre, Jaques Canetti, una lingua particolare, il tedesco, usata nei loro “felici anni di studio a Vienna”. Un linguaggio d'amore, che il figlio conoscerà molto più tardi e che sarà appunto – la lingua salvata.


Insomma, le prime pagine del libro ci restituiscono una vivacissima e molteplice vita di bambino, arricchita dalle favole popolari che gli raccontano le ragazze bulgare che venivano a prestare servizio in casa Canetti dalla campagna, storie piene di fantasmi e lupi mannari, cavalli e lupi che attraversano il Danubio ghiacciato.
Tutto ciò fino al 1911, quando la famiglia si trasferisce a Manchester in seguito alla decisione del padre di seguire gli affari di famiglia...
Comincia la carriera scolastica di Elias, che tanta parte avrà nel libro, e mentre impara con piacere la nuova lingua, la vita scorre tranquilla e avvolta dall'amore incondizionato del padre, figura dolcissima la cui tragica morte, per un improvviso attacco cardiaco, segna per sempre le vicenda familiari. Forse è proprio da allora che Elias dichiara guerra alla morte, e questa paradossale posizione – difficile da sintetizzare nei suoi contenuti teorici – fornirà la materia non solo al “Libro contro la morte”, ma anche alla sterminata messe di note e appunti che confluiranno nel monumentale “Massa e potere”, pubblicato nel 1960, al quale si era dedicato per 38 anni, dove la morte viene analizzata come uno strumento del potere.
La morte del padre avviene nel 1912 e da questo momento in poi avviene la saldatura affettiva, intellettuale, psicologica con la madre. Un rapporto simbiotico attorno al quale ruota tutto il libro e che probabilmente si struttura proprio intorno alla grande “mancanza” paterna. Secondo Luisa Marigliano, con la morte del padre la vita di Elias cambia totalmente:

La madre decide di insegnargli il tedesco. Glielo insegnerà senza ricorrere ad alcun sussidio didattico ma basandosi esclusivamente sull’oralità, sull’ascolto e la ripetizione di parole e frasi di cui Elias non comprendeva il significato. Possiamo immaginare i suoi balbettii incerti come quelli di un neonato. Il percorso fu lungo e doloroso ma alla fine lo condusse ad una seconda nascita non solo linguistica ma anche affettiva. Molto presto Elias Canetti iniziò a scrivere e lo lo fece in tedesco, la traduzione si compì spontaneamente nel suo inconscio.

Il libro procede come un mosaico di scene significative, piccoli aneddoti e scene tragiche, considerazioni (tasselli) su quello che una determinata scelta, un determinato episodio hanno provocato in futuro: alcuni di noi hanno visto in questo ricordare un andamento meccanico e poco in sintonia con la quantità di questioni emotive che vengono sollevate. E c'è sicuramente una differenza tra prima parte del libro, molto più vivace, con un'impronta quasi favolistica ed esotica, e la seconda parte, più “manualistica” ed elencativa, in cui gli avvenimenti (e persino le emozioni) sono trattati con un distacco “scientifico”, da entomologo, da esperto di “fenomenologia degli spinaci” come lo chiamava sarcasticamente la madre quando le sue passioni letterarie, da lei coltivate nel figlio, vengono offuscate da un interesse per la scienza.
La passione per gli aspetti scientifici dell'esistere nasce in Svizzera quando frequenta gli studi superiori.
Prima del soggiorno svizzero, Elias termina le elementari a Vienna. Qui avviene un fatto saliente: per la prima volta sperimenta il potere della massa: a soli nove anni, il primo agosto 1914, viene aggredito insieme ai fratellini dalla folla inferocita perché aveva cantato l'inno inglese in un parco proprio mentre veniva annunciato che la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia: “Io non compresi bene che cosa avessi fatto di male; a maggior ragione, quindi, quella prima esperienza di una massa ostile mi si impresse indelebilmente nell’animo.”
Dicevamo della Svizzera: è l'approdo del libro, quello in cui matura il distacco dalla madre, esito di un lungo dissidio amoroso marcato dalle scelte intellettuali. È infatti l'epoca in cui Canetti incontra una serie notevole di personaggi importanti dal punto di vista intellettuale e in cui comincia ad avere – se così si può dire – una sua idea del mondo.
La madre si ribella, crede che il figlio sia diventato un uomo staccato dalla realtà, perso inutilmente in studi inutili. Sente che l'educazione a una elevazione morale (questo era per lei il senso della letteratura) è ormai finito, il figlio ha preso un'altra strada. Stabilisce un trasferimento in Germania senza sentire ragioni: la Germania è un paese che ha vissuto la guerra, può togliergli i grilli da “fenomenologo degli spinaci” dalla testa e dargli una dura scuola di realtà. Elias sente che la felicità è perduta, la cacciata dal paradiso, come la chiama, inaugura la sua vita di adulto.




Canetti con il "battaglione" di matite con cui scrive

Due citazioni per terminare: una fa parte della lunga storia dell'amore tormentato con la madre e ci dà il senso della complessità di questo legame, della “forma” della personalità di Canetti così come è forgiata da questo rapporto, e l'altra è la citazione di un brano che era molto piaciuto a Caterina Nodaro e che invece dà il senso di cosa è per lui l'educazione in rapporto agli insegnanti.
Allora non sapevo ancora cosa è la vastità , eppure la intuivo : il poter contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un suo ambito, e questo sentirlo senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chiamarlo col suo nome e meditarci sopra: ecco la cosa che proprio da mia madre ho imparato, ed è la vera gloria della natura umana.
La diversità degli insegnanti era sorprendente, è la prima forma di molteplicità di cui si prende coscienza nella vita. Il fatto che essi ci stiano davanti così a lungo, esposti in tutte le loro reazioni osservati ininterrottamente per ore e ore, oggetto dell'unico vero interesse della classe, impossibilitati a muoversi e dunque presenti in essa sempre per lo stesso tempo, esattamente delimitato; la loro superiorità di cui non si vuole prendere atto una volta per tutte e che rende acuto, critico e maligno lo sguardo di chi li osserva; […] e poi il segreto in cui rimane avvolto il resto della loro vita, in tutto il tempo durante il quale non stanno recitando la loro parte davanti a noi […] - come tutto questo agisce e si manifesta, è un'altra specie di scuola, del tutto diversa da quella dell'apprendimento, una scuola che insegna la molteplicità della natura umana, e purché la si prenda sul serio anche solo in parte, è questa la prima vera scuola di conoscenza dell'uomo.



lunedì 2 ottobre 2017

Il sentiero dei nidi di ragno


Per discutere de “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino ci siamo incontrati in una calda serata di luglio sulla bella e ospitale terrazza di Valeria Curcio, in zona Quarto Miglio, allietati oltre che, come al solito, da ottimo cibo, anche da un magnifico tramonto con vista sul parco degli Acquedotti e molto altro.
Il libro di Calvino, la sua opera prima, si è aggiudicato l'ottavo posto nella nostra lista di preferiti tra i quarantadue letti e dunque grande è stato l'apprezzamento sia tra chi lo aveva già letto, sia tra chi lo leggeva per la prima volta.
Abbiamo naturalmente anche parlato a lungo della Prefazione, scritta dallo stesso Calvino nel 1964, diciassette anni dopo la prima edizione Einaudi del 1947. Non si tratta della semplice “introduzione” a un testo, ma di un fondamentale, mirabile e appassionato resoconto del clima letterario, sociale e politico dell'immediato secondo dopoguerra; nello stesso tempo un testo di critica letteraria e di note autobiografiche. Tra il 1964 di quella prefazione ed oggi è passato oltre un cinquantennio al centro del quale ha imperversato come un ciclone di vento maligno un feroce revisionismo che ha permeato così tanto l'opinione pubblica e il senso comune che Resistenza e Antifascismo sono oggi parole svuotate di significato e quasi obsolete. Questa prefazione è molto utile per liberarsi da quel vento e, se possibile, guardare avanti.
Calvino inizia ciascun paragrafo di questa prefazione con la frase “Questo romanzo è il primo che ho scritto...”. In effetti ha ventiquattro anni quando lo pubblica e - ci racconta - lo stile letterario che gli si è imposto (uno stile che non adotterà mai più in seguito) è quello neorealista, per il bisogno espressivo di dare voce a ciò che ha conosciuto e vissuto. Entrato nella Resistenza dopo l'8 settembre del '43 con il nome di “Santiago” (dal nome della città cubana dove era nato), conosceva molto bene un paesaggio e degli uomini e di questo vuole scrivere con verità. Una scelta etica, oltre che letteraria. Ma questa non è tutta la verità.


Anzitutto: scrive in una prima persona che non è “anagrafica” ma è quella, spostata in avanti, di un ragazzino, Pin, in bilico tra una fanciullezza negata e un'adolescenza precaria. Gli altri personaggi, fortemente caratterizzati, sono riferibili a persone che Calvino ha realmente conosciuto durante i mesi della lotta partigiana, ma “contraffatti, irriconoscibili”. Si rammarica, nella prefazione, di aver così caricato i caratteri dei suoi compagni “sotto la lente espressionistica” ma la contraffazione ha un senso poetico che gli permette di sfuggire a un doppio pericolo: la mitizzazione letteraria della Resistenza e la denigrazione revisionistica che era già in atto e che faceva leva sulla rappresentazione dei partigiani come dei pochi di buono mezzi o tutti delinquenti. Nel distaccamento del “Dritto” effettivamente sono tutti mezzi storti, come è storto Pin, l'unico che sa dove fanno i nidi i ragni e che è un personaggio dalla notevole complessità psicologica. Apparentemente è un picaro, un furfantello che le avversità della vita hanno scaraventato in un mondo adulto alieno e minaccioso, in cui si salva con espedienti vari. E la scelta di scrivere dal punto di vista di un ragazzo, oltre che dare al racconto un tono fiabesco, anche se di fiaba non lieve, è stato letto come una scelta di “leggerezza”, la leggerezza di cui scriverà Calvino nelle “Lezioni americane”, come racconta Silvana più sotto.
Ma va comunque tenuta presente l'identificazione dello scrittore con il suo personaggio, che non ha nulla di leggero: di nuovo nella Prefazione, Calvino definisce l'energia del giovane protagonista “una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l'indigenza del 'troppo giovane” e l'indigenza degli esclusi e dei reietti”. Una sensazione che conosce per averla vissuta quando “il maturare impetuoso dei tempi non aveva fatto che accentuare la mia immaturità”. Un gorgo drammatico di sentimenti, paure, spavalderie, fragilità...

Forse è in parte autobiografico anche il personaggio che sta al polo opposto rispetto a Pin, l'uomo adulto, padrone delle proprie azioni e dei propri pensieri, il comandante Kim, voce recitante del discusso capitolo IX che, come Calvino stesso spiega, tanto è stato visto come slegato dalla storia che gli è stato persino chiesto di toglierlo dal libro. Alla fine, pur comprendendo che l'”innesto ideologico” in esso contenuto rompeva l'omogeneità del libro, ha deciso di conservarlo perché in fin dei conti rispettava il carattere “spurio e composito” con cui il romanzo era stato concepito. In una scena quasi teatrale (anche se all'aperto) Calvino esce dalla narrazione delle disavventure di Pin e compagni, e per bocca di due personaggi, Kim e Ferriera, che finora non sono comparsi ma che hanno potere di vita e di morte su coloro che abbiamo fin qui conosciuto, dà conto di alcune importanti questioni: perché si uccide, cosa si difende stando da una parte o dall'altra, chi è che sta combattendo e perché.
Noi abbiamo conosciuto durante la lettura del libro il distaccamento del Dritto, nella descrizione di Kim “gente che non ha niente da difendere e niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati o fanatici. Un'idea rivoluzionaria in loro non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina”. Questa gente, facilmente può passare da una parte all'altra. Eccoci al punto: è dunque la stessa cosa combattere da una parte o dall'altra? “la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena”. Gli spari sono gli stessi, ma conducono in posti diversi nella storia: qua dalla parte del riscatto, di là dall'altra parte, semplicemente. E su questo Zaira Tarragoni si è soffermata riflettendo sul senso di questo riscatto che non è, non solo, il riscatto altisonante, eroico, nobile che, a volte, sembra essere così distante dal quotidiano, ma il riscatto del contadino dall'ignoranza, dell'operaio dallo sfruttamento. È un riscatto concreto e reale contro tutte le umiliazioni. Questo è il vero significato della lotta.

Prima di lasciare la parola a Silvana, un' ultima considerazione: nella stampa generata da quel processo di revisionismo dal volto feroce di cui si è detto, si è millantato il bisogno di “dare la parola a chi è stato per anni costretto a tacere dall'arroganza dei vincitori” (così l'ineffabile Giampaolo Pansa). E invece il lato oscuro della Resistenza, le sue ambivalenze o “stramberie” erano stati rappresentati già – e in forma letteraria altissima – da Calvino e da Fenoglio, oltreché naturalmente da numerosi storici.

“Una questione privata” di Beppe Fenoglio sarà la nostra prossima lettura. Non è un caso che l'abbiamo scelto: lasciamo la parola al Calvino della Prefazione al “Sentiero” e alle sue riflessioni sulla letteratura della Resistenza:

“Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più isolati, i meno “inseriti” a conservare questa forza. E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo (Una questione privata) e morì prima di vederlo pubblicato […]
Una questione privata […] è costruito con la geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l'Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com'era, […] con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. […] È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione, non al mio.”


Luisa Marigliano ha fatto una piccola ricerca sui genitori di Italo Calvino e ne sono usciti fuori ritratti che davvero sembrano usciti da un libro di avventura:

I genitori di Italo Calvino erano delle persone assolutamente fuori dal comune.
La madre, Eva Mameli, era imparentata con Goffredo Mameli, l’autore dell’inno nazionale. Nacque a Cagliari nel 1886 e fu la prima ragazza a frequentare un liceo pubblico cagliaritano riservato ai maschi e fu la prima docente donna all’università di Cagliari ove insegnava botanica. Sposò Mario Calvino con il quale ebbe 2 figli, Italo e Floriano. Quando il marito si trasferì, per motivi di sicurezza, a Cuba, lei lo seguì. Rientrarono in Italia nel 1925, Italo aveva 2 anni. Fu una donna estremamente coraggiosa tanto da non fuggire dai fascisti che inscenarono una finta fucilazione per ottenere da lei informazioni sui figli che erano entrati a far parte della lotta partigiana. Alla caduta del regime diresse la rivista ‘Giardino Fiorito’ e rispondeva a chi le scriveva per consigli sul giardinaggio.
Il padre, Mario, nacque a Sanremo nel 1875. Proveniva da una famiglia di mazziniani, anticlericali e massoni. Fu coinvolto in un intricato caso collegato al fallito attentato all’imperatore Nicola II. L’attentatore aveva con sé il passaporto e la tessera di giornalista di Mario Calvino che sostenne di aver subito il furto di tali documenti mentre viaggiava in treno e che, a causa dei suoi numerosi impegni, aveva dimenticato di denunciare il furto. Nel gennaio del 1909, sentendosi in pericolo, approfittò di un viaggio di lavoro in Francia e si imbarcò per gli Stati Uniti da cui raggiunse il Messico ove prese parte alla rivoluzione di Pancho Villa. Nel 1917 accettò l’incarico di Direttore della Stazione Sperimentale di agricoltura a Santiago de Las Vegas vicino all’Avana, a Cuba. Nella Biblioteca civica di Sanremo si trova il grande Fondo Mario Calvino e Eva Mameli Calvino donato alla città da Italo e Floriano Calvino nel 1979, anno di morte della mamma. Di tale fondo fanno parte 42.000 pubblicazioni, 1.000 volumi monografici, 212 periodici, 10.000 opuscoli e molte fotografie.

E queste - come anticipato – sono le considerazioni di Silvana Pestilli:

Forse le colline intorno a San Remo non sono più quel paradiso terrestre descritto nel “Sentiero dei nidi di ragno” dove Pin scorrazza abbuffandosi di fragole o di ciliegie, i cui noccioli gli servono, come nelle fiabe, per lasciare traccia di sé a Lupo Rosso. Un paradiso di ulivi, castagni, ciliegi, rododendri, torrenti, frullare d’ali che accoglie Pin tra cielo e lembi di mare che appaiono e scompaiono dietro le colline. Per meraviglie le colline di Pin rivaleggiano con l’isola di Arturo, ed esse fanno da volano alle fantasie e ai sogni eroici dei due bambini, entrambi abbandonati a se stessi. Se però nell’opera della Morante c’è la struggente consapevolezza che quel paradiso terrestre rievocato da Arturo è un paradiso perduto come quello dell’infanzia ( “L’isola di Arturo” viene scritta una decina d’anni dopo il Sentiero, a metà degli anni 50, con speculazioni edilizie in corso), nel “Sentiero” non si avvertono ancora insidie per quello stato di natura intatto.
In questo paesaggio favoloso, a ridosso del vecchio paese di carrugi bui e maleodoranti dove Pin, orfano dei genitori, vive con la sorella prostituta, la Nera di Carrugio Lungo, si intrecciano le avventure del piccolo e sfrontato vagabondo, con quelle di una banda sgangherata di Resistenti , quella del Dritto, variegata e alquanto ridicola.
Il Sentiero è un libro di guerra, ma il fatto che a raccontarne gli avvenimenti tragici - imboscate rastrellamenti tradimenti morti - sia Pin, attraverso il suo sguardo di bambino vecchio, ingenuo e spietato insieme, rende inusuale la prospettiva. I Resistenti , come nelle fiabe, sono personaggi deformati : il cuoco dell’ accampamento partigiano, il trotzkista Mancino, ha sempre sulle spalle un falchetto, Babeuf, che rimanda ai poveri capponi di Renzo: più il cuoco gesticola infervorato dalle sue stesse arringhe comuniste, che danno sui nervi a tutti, più Babeuf svolazza su e giù per la sua spalla; e il lettore di super gialli, Zena il Lungo, pigro al punto da non portare mai pesi quando si marcia nonostante le sue spalle da camallo, non smette di leggere neanche in battaglia: appoggia il libro sul mitragliere nelle pause di lettura usando il pollice come segnalibro e, al contrario di Mancino, coltiva sogni “liberisti”: pensa di andarsene in America quando finirà la guerra. Anche gli altri Resistenti non sono da meno in stramberia e inaffidabilità; e Pin si ritrova con loro a fare vita d’accampamento, all’ombra di una distesa di rododendri, tra episodi tragicomici di violenza e sesso , dei quali subisce la fascinazione spesso senza afferrarne il senso.
Sembrerebbe che tali personaggi abbiano parecchio in comune con i personaggi grotteschi di tanti film dei Coen ma solo apparentemente: per il disincanto con cui i due registi americani osservano l’abisso umano essi sono irrecuperabili nella loro idiozia; Calvino invece, pur deformandoli nei loro tic, attraverso lo sguardo straniante di Pin, disvela, dietro tali stramberie, in un’alternanza di finzione e realtà, vite cariche di “un’umanità ribollente di spietatezza e di natura” di cuochi, camerieri, contadini, ex carabinieri, che sperano, anche se confusamente, in un futuro migliore che ne riscatti le sofferenze .
Il capitolo IX, il cosiddetto capitolo “ideologico”, ha una sua utilità nel rappresentare l’idea che lo scrittore ha della guerra e di quanto essa gli sia incomprensibile, così come è incomprensibile al bambino il mondo degli adulti;“l’euforia di poter ricominciare da zero” propria di quegli anni, di chi crede nel progresso della storia che, anche con i suoi tempi lunghi, sarà portatrice di un futuro di uguaglianza democrazia libertà. Inoltre in tale capitolo, Calvino rende nota la sua posizione verso chi si è ritrovato a combattere dall’altra parte: la parte sbagliata; ed essa non è di condanna manichea, perché, anche in questo caso, si sono affidate speranze a ideologie: ”solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”.
Nel “Sentiero” già si respira aria di Leggerezza: il valore letterario cui lo scrittore dedicherà la prima delle “Lezioni americane”. Ne cito un passaggio: “Mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica ( e il Sentiero è tale) ecco che Perseo mi viene in soccorso”. E infatti come Perseo, volando con i suoi calzari alati, riesce a decapitare la Medusa non guardandola direttamente ma guardandone l’immagine riflessa nello scudo, così Calvino si serve di uno “sguardo di scorcio”: gli occhi di un bambino, per raccontare la sua esperienza della Resistenza, sfrondandola da pesantezze retoriche, senza farsi “pietrificare” dall’ideologia. Ancora dalle Lezioni americane: “È in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, non fughe nel sogno o nell’irrazionale, bensì nel guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica …”. Celandosi dietro la visione indiretta dello sguardo di Pin, Calvino può alternare finzione e realtà pur non perdendo mai di vista gli orrori di quest’ultima: orrori filtrati dall’ingenuità del bambino, che evita all’autore derive patetiche. E grazie al fatto che a narrare è un bambino, Calvino, pur aderendo ai temi realistico-sociali del neorealismo, può sottrarsi agli “imperativi categorici dell’epoca” di celebrazione agiografica della Resistenza , mantenendo la libertà di interpretare gli eventi senza farsene, per l’appunto, “pietrificare”. Ne risulta una scrittura leggera, colorita dal dialetto e immediata . Scrittura che, pur nutrendosi di fatti, ne elude “l’opacità e la vischiosità“ plasmandoli al suo “ritmo interiore picaresco”; ed essa assume, nel vortice e nelle “giravolte” incalzanti degli avvenimenti, “l’agilità scattante e tagliente”, realizzando l’altro valore da lui espresso nelle celebri Lezioni americane: la Rapidità.
Così “Il Sentiero” - prima opera di Calvino- scritto nel 1946, contiene valori letterari rappresentati nelle Lezioni americane, scritte nel 1985, che l’autore intendeva portare , come valori imperdibili della letteratura, nel nuovo millennio allora alle porte, e che erano stati la sua cifra identitaria lungo l’arco di “quarant’anni di scrittura di fiction”.

Il critico Pietro Citati, grande amico di Calvino, raccontava in un’ intervista: “Due anni dopo la morte di Italo l’ho sognato. Lui mi diceva che non era morto. Mi diceva che il tragico non è la forma essenziale del mondo”.