martedì 17 luglio 2018

Fenoglio e Pavese

Beppe Fenoglio, Una questione privata



Questo blog va un po' a balzelloni: colpa degli impegni di noi tutti e della redattrice usuale soprattutto, ed è un po' difficile seguire il “senso” delle letture. Perché un senso c'è. Verso l'inizio dei nostri incontri avevamo scelto i premi Nobel, poi la scrittura femminile, poi il Mediterraneo e le sue voci; poi, durante l'autunno/inverno 2017-2018 abbiamo intrapreso, dopo “Il sentiero dei nidi di ragno”, una sorta di ciclo ideale sulla guerra e la Resistenza che partiva da “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, passava per “La casa in collina” di Pavese, per terminare con “La Storia” di Elsa Morante.
Neanche lontanamente è possibile dare conto di tutti gli intrecci, le idiosincrasie, gli agganci, i rimandi che ci sono venuti in mente tra questi libri e che abbiamo discusso nei nostri incontri e così iniziamo a fare un resoconto “minimo” dell'accoppiata Fenoglio/Pavese, rispettivamente discussi il 24 ottobre e il 24 novembre 2017, a un mese di distanza l'uno dall'altro
Diciamo anzitutto che Fenoglio ce lo ha in un certo senso “consegnato” Calvino.
Nell'introduzione al “Sentiero” infatti aveva scritto: “Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo e morì prima di vederlo pubblicato… Una questione privata … è costruito con la geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l'Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com'era, …con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. … È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione, non al mio.”

L'edizione Einaudi del 1986 contiene sia “Una questione privata” che “I ventitré giorni della città di Alba”. Il secondo, del 1952, è il primo libro pubblicato di Fenoglio mentre “Una questione privata” è uscito poco dopo la morte, nel 1963, così come postumo è il libro forse più famoso, anche per via della sperimentazione linguistica, “Il partigiano Johnny” comparso nel 1968 e che nelle intenzioni di Fenoglio doveva essere il cuore di una sorta di epopea della Resistenza.
Figlio di un macellaio di Alba, Amilcare, e di una donna che parlava unicamente il dialetto albese, forte e intelligente come il figlio, dopo la scuola dell'obbligo Beppe viene iscritto al liceo, dove nasce e si sviluppa la sua passione per la lingua inglese.
Entra nell'università nel '40 ma nel '43 viene richiamato alle armi, poco tempo prima dell'Otto settembre, e già nel gennaio del '44 entra nelle formazioni partigiane, prima con le Brigate Garibaldi, poi con i badogliani.
Sono gli anni in cui si situa la scena di entrambi i romanzi di Fenoglio ma, come abbiamo detto, entrambi sono stati pubblicati nel dopoguerra, con non poche polemiche della critica militante che stigmatizzava, dei Ventitré giorni, il tono beffardo e irriverente e, della Questione, il tono intimistico, esistenzialistico, e – appunto – privato.

Sicuramente Vittorini, con cui condivideva l'interesse per la lingua inglese, e Calvino, conosciuti quasi in contemporanea, furono determinanti per la sua affermazione visto che lo stimarono e lo incitarono alla scrittura e alla pubblicazione. Ma ancor più determinante fu il generale interesse verso un tipo di scrittura che dagli Stati Uniti mostrava come si potesse “ procedere ad orecchio della vita e non a riflessione sulla vita” (Vittorini). Vittorini, Pavese e Fenoglio – al di là delle numerose differenze - sono accomunati dalla ricerca di una prosa quanto più possibile aderente alla realtà, anche se diverse sono le declinazioni della “realtà”.

Breve sunto tratto dal sito www.centrostudibeppefenoglio.it:

Il romanzo, incompiuto, narra la vicenda del partigiano Milton, un giovane studente universitario che, durante un’azione nelle vicinanze di Alba, rivede la villa sulla collina dove era sfollata Fulvia, una ricca ragazza torinese, incontrata quasi due anni prima.
Milton ama Fulvia, ormai lontana: ricorda i momenti trascorsi insieme, le letture e la musica che hanno ascoltato; ma la villa, ora, è immersa in un’atmosfera di spettrale abbandono.
La custode, in un breve colloquio, rivela al giovane gli incontri avvenuti tra Fulvia e Giorgio Clerici, un comune amico. Il racconto suscita nell’animo di Milton un’angoscia profonda; e l’amore per Fulvia, l’amicizia per Giorgio, la gelosia, si fondono in un’unica passione ossessiva: il desiderio di conoscere la verità.
I temi fondamentali di questa storia romantica sono l’amore e la Resistenza; ma il tragico turbamento individuale prevale sulle vicende politiche.
Milton vuole incontrare Giorgio: comincia, quindi, la sua ricerca affannosa, in un paesaggio divenuto ostile per la presenza avvolgente di una fitta nebbia.
Giorgio Clerici è stato catturato dai fascisti e condotto ad Alba.
Milton organizza uno scambio: sequestra un sergente fascista, ma è obbligato ad ucciderlo, perché il prigioniero tenta di fuggire.
Il sospetto del tradimento di Fulvia e l’ansia di conoscere la verità non abbandonano il protagonista del romanzo: Milton decide di ritornare nella villa; ma incontra una colonna fascista che lo costringe ad una fuga quasi interminabile, ai limiti della resistenza umana.
L’eroe solitario, ormai estraneo alla realtà che lo circonda, corre fra il cielo e la terra; poi, crolla sotto gli alberi di un bosco che, protettivo, lo accoglie.


Questa la trama. Muore Milton? Si salva? “Gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò diritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”. I fratelli Taviani, che hanno tratto un film dal libro, preferiscono lasciare aperta la vicenda del protagonista: quel che è certo è che la caduta è la fine del deragliamento emotivo del protagonista e dunque è la fine del libro, inteso come ricerca forsennata e impossibile della verità.

Nel gruppo c'è stato un accordo fondamentale su quello che il libro lascia dopo la lettura. Non solo il senso del “furore” ariostesco di questo continuo andare, sprofondare nel fango, uccidere quasi per caso, ma anche la fisicità del paesaggio: sembra di toccare quella nebbia che oscura la vista, di sentire l'odore del cibo impervio che si cucina nei rifugi di fortuna. E, per contro, l'atmosfera rarefatta, intellettuale, o meglio cerebrale, della relazione con Fulvia prima del precipitare della storia. “Over the rainbow”, che ossessivamente girava nel grammofono della casa prima abitata poi deserta di Fulvia, è la colonna sonora di questa sorta di mancata storia d'amore, arcobaleno che annega nei tonfi, negli sprofondamenti e nel bianco e nero dello scenario in cui si muove il partigiano badogliano Milton, alter ego di Fenoglio: “Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello”.




Cesare Pavese – La casa in collina




Fenoglio muore per malattia a 41 anni, Pavese si toglie la vita a 42. Uomini giovani, per i parametri di oggi, già maturi per gli anni '50, quando la loro generazione si rimetteva in piedi dopo la guerra civile.
Entrambi originari delle Langhe, terra di poche parole e di ottimi vini (ma Pavese detestava il vino rosso), a giudicare dai ricordi di coloro che li hanno conosciuti, sembra che avessero personalità per parecchi versi simili, in cui un altissimo rigore intellettuale e morale si associava a un riserbo e a una ritrosia molto accentuati e, in Pavese, a una estrema vulnerabilità.

Si è spesso detto, a ragione, che Fenoglio abbia voluto, più che fare un affresco della Resistenza, dare conto dell'eterna lotta tra bene e male, come si ritrova nella poesia epica e come si trova nella amata letteratura inglese (Milton, nome di battaglia del protagonista de “Una questione privata”, è l'autore del Paradise lost). E c'è chi ipotizza, altrettanto a ragione, come la scelta della letteratura inglese rispetto a quella americana sia stata determinata dal bisogno di Fenoglio di distanziarsi dall'ombra ingombrante del “conterraneo” Pavese, affermato scrittore, che già nel 1932 si era cimentato con la traduzione del Moby Dick di Melville e che si era laureato con una tesi su Walt Whitman.

Di Pavese abbiamo scelto “La casa in collina” proprio perché è l'altro punto di vista rispetto alla guerra partigiana, quello di chi sceglie di non parteciparvi in prima persona.
Fu pubblicato nel 1949, insieme a “Il carcere” che però risale al 1938-39, parte di una trilogia che include anche “Il compagno”, pubblicato nel 1947.

Anche qui, come in “Una questione privata”, siamo intorno all'8 settembre 1943, immersi nella guerra civile.
Il racconto è in prima persona e certamente nei tratti del protagonista Corrado è riconoscibile Cesare, che rimane in città a svolgere il suo lavoro di professore, sale in collina la sera e dorme in una casa che gli offrono due donne, Elvira e sua madre: la casa in collina del titolo. Ha con sé il cane Belbo. Nei pressi c'è un'osteria in cui sta un partigiano di nome Fonso e altri, tra cui Cate, una donna con cui Corrado ha avuto una tormentata e amara storia d'amore a Torino, tempo prima. Cate ha con sé il figlio, che si chiama Dino. Corrado pensa sia suo figlio e si lega moltissimo a lui.
Corrado è antifascista ma sconta un'apatia che sconfina nella vigliaccheria, un tratto di sé che non gli piace ma che lo connota in profondità e origina dal profondo dissidio di un antifascismo che non sa farsi pratico.

Tu, che dici? Che cosa faresti – chiese Cate, seria.
Tacquero tutti, e mi guardavano.
Ammazzare, – dissi – levargli la voglia. Continuare la guerra qui in casa. […]-
Tu lo faresti? – disse Cate.
No, – risposi. – Ci sono negato.

Corrado è negato alla guerra; la guerra, spiega nelle prime pagine, è una sorta di tana in cui si è raccolto il sordo rancore con cui si è conclusa la gioventù. Un giorno, tornando in collina dalla città, assiste non visto all'arresto di Cate e degli altri da parte dei nazisti. Scappa e si rifugia a Chieri, in un collegio di preti, dove poco dopo lo raggiunge Dino. Ma non si sente al sicuro neanche lì e fugge di nuovo. A quel punto inizia una sorta di angosciato vagabondaggio per le colline; perde la strada (non è più il cammino consueto e tranquillizzante che lo portava, la sera, alla casa in collina: cerca la strada di casa dei suoi genitori ma non la riconosce più), assiste a un'imboscata di partigiani che ammazzano dei tedeschi. L'imboscata non è descritta, sono descritti solo, in modo indimenticabile, i morti ammazzati.
Il libro finisce con la guerra ancora in atto. Corrado, nell'ultimo capitolo che riassume tutte le sue riflessioni politiche, esistenziali e di relazione tra gli uomini e le donne, tra gli uomini e i propri nemici, fa alcune considerazioni, quasi una meditazione sulla morte. E lo fa con le frasi dall'andamento musicale cui ci ha abituato in tutto il breve testo, tipiche anche delle sue poesie; frasi “vere” in tutti i sensi possibili e che, una volta lette, non si dimenticano più. Parafrasando una frase della poesia “Ulisse”1:

Cesare ha un suo modo di parlare della guerra che, chi l'ha fatta, sa che può sentirlo compagno.

Ecco alcuni estratti del XXIII e ultimo capitolo:

“Ma ho visto i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante … Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.
Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

1 Il ragazzo ha un suo modo di uscire di casa che, chi resta, s'accorge di non farci più nulla.