Beppe Fenoglio, Una
questione privata
Questo blog va un po' a
balzelloni: colpa degli impegni di noi tutti e della redattrice
usuale soprattutto, ed è un po' difficile seguire il “senso”
delle letture. Perché un senso c'è. Verso l'inizio dei nostri
incontri avevamo scelto i premi Nobel, poi la scrittura femminile,
poi il Mediterraneo e le sue voci; poi, durante l'autunno/inverno
2017-2018 abbiamo intrapreso, dopo “Il sentiero dei nidi di ragno”,
una sorta di ciclo ideale sulla guerra e la Resistenza che partiva da “Una questione privata”
di Beppe Fenoglio, passava per “La casa in collina” di Pavese,
per terminare con “La Storia” di Elsa Morante.
Neanche lontanamente è possibile dare
conto di tutti gli intrecci, le idiosincrasie, gli agganci, i rimandi
che ci sono venuti in mente tra questi libri e che abbiamo discusso
nei nostri incontri e così iniziamo a fare un resoconto “minimo”
dell'accoppiata Fenoglio/Pavese, rispettivamente discussi il 24
ottobre e il 24 novembre 2017, a un mese di distanza l'uno dall'altro
Diciamo anzitutto che Fenoglio ce lo ha
in un certo senso “consegnato” Calvino.
Nell'introduzione al “Sentiero”
infatti aveva scritto: “Fu il più solitario di tutti che riuscì a
fare il romanzo che tutti avevamo sognato, Beppe Fenoglio, e arrivò
a scriverlo e nemmeno a finirlo e morì prima di vederlo pubblicato…
Una questione privata … è costruito con la geometrica tensione di
un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come
l'Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio
com'era, …con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più
impliciti, e la commozione, e la furia. … È al libro di Fenoglio
che volevo fare la prefazione, non al mio.”
L'edizione Einaudi del 1986 contiene
sia “Una questione privata” che “I ventitré giorni della città
di Alba”. Il secondo, del 1952, è il primo libro pubblicato di
Fenoglio mentre “Una questione privata” è uscito poco dopo la
morte, nel 1963, così come postumo è il libro forse più famoso,
anche per via della sperimentazione linguistica, “Il partigiano
Johnny” comparso nel 1968 e che nelle intenzioni di Fenoglio doveva
essere il cuore di una sorta di epopea della Resistenza.
Figlio di un macellaio di Alba,
Amilcare, e di una donna che parlava unicamente il dialetto albese,
forte e intelligente come il figlio, dopo la scuola dell'obbligo
Beppe viene iscritto al liceo, dove nasce e si sviluppa la sua
passione per la lingua inglese.
Entra nell'università nel '40 ma nel
'43 viene richiamato alle armi, poco tempo prima dell'Otto settembre,
e già nel gennaio del '44 entra nelle formazioni partigiane, prima
con le Brigate Garibaldi, poi con i badogliani.
Sono gli anni in cui si situa la scena
di entrambi i romanzi di Fenoglio ma, come abbiamo detto, entrambi
sono stati pubblicati nel dopoguerra, con non poche polemiche della
critica militante che stigmatizzava, dei Ventitré giorni, il tono
beffardo e irriverente e, della Questione, il tono intimistico,
esistenzialistico, e – appunto – privato.
Sicuramente Vittorini, con cui
condivideva l'interesse per la lingua inglese, e Calvino, conosciuti
quasi in contemporanea, furono determinanti per la sua affermazione
visto che lo stimarono e lo incitarono alla scrittura e alla
pubblicazione. Ma ancor più determinante fu il generale interesse
verso un tipo di scrittura che dagli Stati Uniti mostrava come si
potesse “
procedere ad orecchio della vita e
non a riflessione sulla vita” (Vittorini). Vittorini, Pavese e
Fenoglio – al di là delle numerose differenze - sono accomunati
dalla ricerca di una prosa quanto più possibile aderente alla
realtà, anche se diverse sono le declinazioni della “realtà”.
Breve sunto tratto dal sito
www.centrostudibeppefenoglio.it:
Il romanzo,
incompiuto, narra la vicenda del partigiano Milton, un giovane
studente universitario che, durante un’azione nelle vicinanze di
Alba, rivede la villa sulla collina dove era sfollata Fulvia, una
ricca ragazza torinese, incontrata quasi due anni prima.
Milton ama Fulvia, ormai lontana: ricorda i momenti trascorsi insieme, le letture e la musica che hanno ascoltato; ma la villa, ora, è immersa in un’atmosfera di spettrale abbandono.
La custode, in un breve colloquio, rivela al giovane gli incontri avvenuti tra Fulvia e Giorgio Clerici, un comune amico. Il racconto suscita nell’animo di Milton un’angoscia profonda; e l’amore per Fulvia, l’amicizia per Giorgio, la gelosia, si fondono in un’unica passione ossessiva: il desiderio di conoscere la verità.
I temi fondamentali di questa storia romantica sono l’amore e la Resistenza; ma il tragico turbamento individuale prevale sulle vicende politiche.
Milton vuole incontrare Giorgio: comincia, quindi, la sua ricerca affannosa, in un paesaggio divenuto ostile per la presenza avvolgente di una fitta nebbia.
Giorgio Clerici è stato catturato dai fascisti e condotto ad Alba.
Milton organizza uno scambio: sequestra un sergente fascista, ma è obbligato ad ucciderlo, perché il prigioniero tenta di fuggire.
Il sospetto del tradimento di Fulvia e l’ansia di conoscere la verità non abbandonano il protagonista del romanzo: Milton decide di ritornare nella villa; ma incontra una colonna fascista che lo costringe ad una fuga quasi interminabile, ai limiti della resistenza umana.
L’eroe solitario, ormai estraneo alla realtà che lo circonda, corre fra il cielo e la terra; poi, crolla sotto gli alberi di un bosco che, protettivo, lo accoglie.
Milton ama Fulvia, ormai lontana: ricorda i momenti trascorsi insieme, le letture e la musica che hanno ascoltato; ma la villa, ora, è immersa in un’atmosfera di spettrale abbandono.
La custode, in un breve colloquio, rivela al giovane gli incontri avvenuti tra Fulvia e Giorgio Clerici, un comune amico. Il racconto suscita nell’animo di Milton un’angoscia profonda; e l’amore per Fulvia, l’amicizia per Giorgio, la gelosia, si fondono in un’unica passione ossessiva: il desiderio di conoscere la verità.
I temi fondamentali di questa storia romantica sono l’amore e la Resistenza; ma il tragico turbamento individuale prevale sulle vicende politiche.
Milton vuole incontrare Giorgio: comincia, quindi, la sua ricerca affannosa, in un paesaggio divenuto ostile per la presenza avvolgente di una fitta nebbia.
Giorgio Clerici è stato catturato dai fascisti e condotto ad Alba.
Milton organizza uno scambio: sequestra un sergente fascista, ma è obbligato ad ucciderlo, perché il prigioniero tenta di fuggire.
Il sospetto del tradimento di Fulvia e l’ansia di conoscere la verità non abbandonano il protagonista del romanzo: Milton decide di ritornare nella villa; ma incontra una colonna fascista che lo costringe ad una fuga quasi interminabile, ai limiti della resistenza umana.
L’eroe solitario, ormai estraneo alla realtà che lo circonda, corre fra il cielo e la terra; poi, crolla sotto gli alberi di un bosco che, protettivo, lo accoglie.
Questa la trama. Muore Milton? Si
salva? “Gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò diritto.
Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a
un metro da quel muro crollò”. I fratelli Taviani, che hanno
tratto un film dal libro, preferiscono lasciare aperta la vicenda del
protagonista: quel che è certo è che la caduta è la fine del
deragliamento emotivo del protagonista e dunque è la fine del libro,
inteso come ricerca forsennata e impossibile della verità.
Nel gruppo c'è stato un accordo
fondamentale su quello che il libro lascia dopo la lettura. Non solo
il senso del “furore” ariostesco di questo continuo andare,
sprofondare nel fango, uccidere quasi per caso, ma anche la fisicità
del paesaggio: sembra di toccare quella nebbia che oscura la vista,
di sentire l'odore del cibo impervio che si cucina nei rifugi di
fortuna. E, per contro, l'atmosfera rarefatta, intellettuale, o
meglio cerebrale, della relazione con Fulvia prima del precipitare
della storia. “Over the rainbow”, che ossessivamente girava nel
grammofono della casa prima abitata poi deserta di Fulvia, è la
colonna sonora di questa sorta di mancata storia d'amore, arcobaleno
che annega nei tonfi, negli sprofondamenti e nel bianco e nero dello
scenario in cui si muove il partigiano badogliano Milton, alter
ego di Fenoglio: “Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio
nome, le due date che sole contano e la qualifica di scrittore e
partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello”.
Cesare Pavese – La
casa in collina
Fenoglio muore per malattia
a 41 anni, Pavese si toglie la vita a 42. Uomini giovani, per i
parametri di oggi, già maturi per gli anni '50, quando la loro
generazione si rimetteva in piedi dopo la guerra civile.
Entrambi originari delle
Langhe, terra di poche parole e di ottimi vini (ma Pavese detestava
il vino rosso), a giudicare dai ricordi di coloro che li hanno
conosciuti, sembra che avessero personalità per parecchi versi
simili, in cui un altissimo rigore intellettuale e morale si
associava a un riserbo e a una ritrosia molto accentuati e, in
Pavese, a una estrema vulnerabilità.
Si è spesso detto, a
ragione, che Fenoglio abbia voluto, più che fare un affresco della
Resistenza, dare conto dell'eterna lotta tra bene e male, come si
ritrova nella poesia epica e come si trova nella amata letteratura
inglese (Milton, nome di battaglia del protagonista de “Una
questione privata”, è l'autore del Paradise lost). E
c'è chi ipotizza, altrettanto a ragione, come la scelta della
letteratura inglese rispetto a quella americana sia stata determinata
dal bisogno di Fenoglio di distanziarsi dall'ombra ingombrante del
“conterraneo” Pavese, affermato scrittore, che già nel 1932 si
era cimentato con la traduzione del Moby Dick di
Melville e che si era laureato con una tesi su Walt Whitman.
Di
Pavese abbiamo scelto “La casa in collina” proprio perché è
l'altro punto di vista rispetto alla guerra partigiana, quello di chi
sceglie di non parteciparvi in prima persona.
Fu
pubblicato nel 1949, insieme a “Il carcere” che però risale al
1938-39, parte di una trilogia che include anche “Il compagno”,
pubblicato nel 1947.
Anche
qui, come in “Una questione privata”, siamo intorno all'8
settembre 1943, immersi nella guerra civile.
Il
racconto è in prima persona e certamente nei tratti del protagonista
Corrado è riconoscibile Cesare, che rimane in città a svolgere il
suo lavoro di professore, sale in collina la sera e dorme in una casa
che gli offrono due donne, Elvira e sua madre: la casa in collina del
titolo. Ha con sé il cane Belbo. Nei pressi c'è un'osteria in cui
sta un partigiano di nome Fonso e altri, tra cui Cate, una donna con
cui Corrado ha avuto una tormentata e amara storia d'amore a Torino,
tempo prima. Cate ha con sé il figlio, che si chiama Dino. Corrado
pensa sia suo figlio e si lega moltissimo a lui.
Corrado
è antifascista ma sconta un'apatia che sconfina nella vigliaccheria,
un tratto di sé che non gli piace ma che lo connota in profondità
e origina dal profondo dissidio di un antifascismo che non sa farsi
pratico.
–Tu, che dici? Che cosa faresti – chiese
Cate, seria.
Tacquero tutti, e mi guardavano.
Ammazzare, – dissi – levargli la voglia. Continuare la
guerra qui in casa. […]-
Tu lo faresti? – disse Cate.
No, – risposi. – Ci sono negato.
Corrado è negato alla guerra; la
guerra, spiega nelle prime pagine, è una sorta di tana in cui si è
raccolto il sordo rancore con cui si è conclusa la gioventù.
Un giorno, tornando in collina dalla città, assiste non visto
all'arresto di Cate e degli altri da parte dei nazisti. Scappa e si
rifugia a Chieri, in un collegio di preti, dove poco dopo lo
raggiunge Dino. Ma non si sente al sicuro neanche lì e fugge di
nuovo. A quel punto inizia una sorta di angosciato vagabondaggio per
le colline; perde la strada (non è più il cammino consueto e
tranquillizzante che lo portava, la sera, alla casa in collina: cerca
la strada di casa dei suoi genitori ma non la riconosce più),
assiste a un'imboscata di partigiani che ammazzano dei tedeschi.
L'imboscata non è descritta, sono descritti solo, in modo
indimenticabile, i morti ammazzati.
Il libro finisce con la guerra ancora in atto. Corrado,
nell'ultimo capitolo che riassume tutte le sue riflessioni politiche,
esistenziali e di relazione tra gli uomini e le donne, tra gli uomini
e i propri nemici, fa alcune considerazioni, quasi una meditazione
sulla morte. E lo fa con le frasi dall'andamento musicale cui ci ha
abituato in tutto il breve testo, tipiche anche delle sue poesie;
frasi “vere” in tutti i sensi possibili e che, una volta lette,
non si dimenticano più. Parafrasando una frase della poesia
“Ulisse”1:
Cesare ha un suo modo di parlare della guerra che, chi l'ha fatta,
sa che può sentirlo compagno.
Ecco alcuni estratti del XXIII e ultimo
capitolo:
“Ma ho visto i morti repubblichini.
Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa
morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a
scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che
dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo
sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è
umiliante … Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente
umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al
posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se
viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è
una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede
ragione.
Ci sono dei giorni in questa nuda
campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo
d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non
credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la
guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero
chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non
saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri
lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro
la guerra è finita davvero.”
1 Il
ragazzo ha un suo modo di uscire di casa che, chi resta, s'accorge
di non farci più nulla.