mercoledì 10 ottobre 2018


Le Affinità elettive di Johann Wolfgang Goethe


Al nostro gruppo di lettura piace molto variare i percorsi e così, dopo la serie Seconda Guerra Mondiale e Resistenza, abbiamo virato sulla letteratura dell'Ottocento. Il nuovo ciclo sarà composto da testi scelti da ciascuna di noi, a turno rigorosamente alfabetico. Alessia, la prima, ha scelto “Le affinità elettive” (al singolare in tedesco: Die Wahlverwandtshaften) di Johann Wolfgang Goethe, un romanzo pubblicato nel 1809.
Ci siamo incontrate il primo marzo di quest'anno. Il verbo è al femminile perché ormai il gruppo è solo femminile. Peccato, perché il punto di vista dell'altro genere avrebbe potuto essere molto interessante, soprattutto nel caso di questo libro. Il titolo richiama una legge della chimica degli elementi ma in realtà le affinità di cui si parla nel testo sono tra uomo e donna.
La struttura è apparentemente schematica: quattro protagonisti, alcuni comprimari, una vicenda che inizia con un passo di danza leggero, quasi leggiadro, e finisce nella tragedia. Sono molti gli incastri, ma la trama in fondo è molto semplice, molto classica, anche se di un classicismo molto sui generis.

Stiamo parlando infatti di Goethe, uno degli scrittori più importanti dell'intera storia della letteratura occidentale, tradizionalmente posto accanto a Dante e a Shakespeare. Una biografia monumentale che, oltre tutto, si svolge in uno spartiacque storico (crisi dell'Ancien régime, Rivoluzione francese, imprese di Napoleone, suo tramonto, Restaurazione) e che ha, anche solo per questo, un destino di ambivalenza, di compresenza di elementi discordi, di anticipazione e di attardamento. A queste motivazioni storiche si aggiunge una straordinaria curiosità e un interesse per un numero impressionante di soggetti e temi: Goethe studia mineralogia, chimica, ingegneria, anatomia, botanica e poi l'inglese, l'italiano, oltre naturalmente le lingue classiche. Non solo, in Goethe tutti questi elementi si fondono organicamente, e questo determina l'unicità e la grandezza del personaggio (il suo leggendario equilibrio “olimpico”), oltre alla quantità e alla qualità delle sue opere.

Non è un caso che in un libro piuttosto tardo come “Le affinità elettive” il titolo stesso rimandi alla chimica inorganica da lui studiata in gioventù.
Le affinità elettive” sono datate, come dicevamo, al 1809. Goethe è nato nel 1749 a Francoforte sul Meno, dunque ha sessant'anni e ha già scritto molte opere, di natura diversissima, a riprova di quella ricerca costante che in realtà di olimpico ha ben poco, e che è anzi indizio e prova di una personalità ambiziosa, cui nessun campo del sapere risulta estraneo e che all'esercizio della letteratura associa fin da subito quello della scienza.

Dicevamo del passo di danza con cui inizia il romanzo: è appena trascorsa “l'ora più bella di un pomeriggio d'aprile” e due affabili sposi non più giovanissimi sono alle prese con l'ammodernamento della vasta proprietà rurale dove hanno deciso di vivere. Ci sono giardini da sistemare, nuovi padiglioni da costruire, palazzine da riadattare. Tra di loro c'è una comunicazione aperta e uno stile di vita che si capisce appartenere ad una borghesia ricca e colta.
Con pochissimi tocchi di pennello Goethe dipinge due diversi tipi di affabilità: nell'uno, Eduardo, che ha “tempra di emotivo”, è di tipo estroverso, comunicativo, nell'altra, è invece un'affabilità pacata e razionale. Carlotta non si tira indietro di fronte a nessuna discussione ma mantiene sempre, nella dialettica, arguzia, tatto e ironia, scansando con eleganza gli eventuali punti critici, facendo valere con pacatezza e decisione la propria opinione.
Veniamo subito a sapere che Eduardo vorrebbe ospitare un suo amico, il “capitano”, per ora lo si chiama così. Assennata, Carlotta propone di analizzare la cosa “sotto diversi aspetti”. Analizza la situazione attuale della coppia alla luce della storia che l'ha preceduta (ottimo espediente per farla conoscere a noi lettori): un matrimonio precedente per entrambi, una figlia – di lei – messa in collegio per darle un'educazione più completa di quella che avrebbe potuto avere in campagna; una nipote, sempre di Carlotta, Ottilia, a lei molto cara, allontanata affinché lei ed Eduardo potessero “godere indisturbati di una felicità desiderata con tanto ardore precoce e ottenuta tardi”. Carlotta teme che l'arrivo di un estraneo – per quanto molto intimo del marito - possa turbare l'equilibrio conquistato negli anni. Eduardo non capisce l'ostinazione della moglie che, peraltro, dopo una sfilza di ottimi motivi razionali (o presunti tali) dice una frase che sa di superstizione e che getta un'ombra sul futuro: “ho come un cattivo presentimento”. E lo abbiamo anche noi: l'evocazione dello sconosciuto (per ora) capitano non ci rassicura, e non capiamo perché ...
Goethe è abilissimo a spargere sotto la superficie adamantina del racconto segni di inquietudine. Sappiamo per esempio che Carlotta si adatta a seguire al pianoforte il marito che suona il flauto molto male perché gli erano mancate la pazienza e la tenacia. In una parola non sono affiatati.
Arriva per primo il capitano e scopriamo che lui ed Eduardo hanno lo stesso nome: Ottone è il secondo nome di Eduardo e il primo del capitano. Se fossimo molto maliziosi potremmo già considerare che Ottilia è il femminile di Ottone …
Intanto i tre (Carlotta, Eduardo e Ottone) prendono visione della tenuta; le sue alture, i suoi boschetti, gli specchi d'acqua, suscitano nel capitano delle proposte di misurazione, rilevamento e infine di rappresentazione grafica della tenuta. Si mette mano a questa attività sommamente razionale che entusiasma Eduardo, unisce i due uomini ma scontenta Carlotta che amava moltissimo ciò che era già stato intrapreso sotto la sua guida e che ora – sotto la sferza del raziocinio misuratore del capitano – è messo in pericolo.
L'isolamento di Carlotta viene alleviato dalle lettere che le giungono dal collegio dove risiedono sia Luciana, sua figlia, che Ottilia, sua nipote. La descrizione di quest'ultima che si ricava dalle lettere della direttrice del collegio e dell'educatore è davvero singolare: ne risulta una persona che sembra mantenga un segreto, che si tira indietro per quanto riguarda se stessa e al contempo è sempre pronta ad aiutare gli altri, perfino servizievole.
In una conversazione tra Carlotta, Eduardo e Ottone si annuncia la teoria delle affinità chimiche, introdotta dal capitano con l'aiuto di esempi tratti dal mondo delle relazioni umane per renderla più comprensibile. La parte più interessante è quando si passa ad esaminare cosa succede ad elementi che normalmente si respingono nel momento in cui interviene un terzo elemento come la soda, che fa legare l'olio e l'acqua, che normalmente se mescolati si separano. Dunque le sostanze che subito si compenetrano si chiamano “affini” (alcali e sali, ad esempio). Ma le affinità sono davvero interessanti quando producono separazioni. Il calcare è una terra calcarea combinata con un acido leggero, una sorta di gas. Se si immerge il calcare in acido solforico, “questo attacca la calce e si trasformano in gesso, mentre quell'acido leggero e aeriforme si libera. In tal modo è avvenuta una separazione e una nuova combinazione e ci si sente davvero autorizzati ad impiegare la parola affinità”.
Siamo avvertiti e intuiamo già in un certo senso ciò che succederà, tanto più che Carlotta aggiunge che in fondo “non si tratta che dell'occasione”. Tanto più che segue un gioco dove si immagina che A sia Carlotta, B Eduardo, C il capitano. C sta distogliendo B da A. Se Carlotta volesse “dileguarsi” avrebbe bisogno di un “D” e questo sarà sicuramente Ottilia.


Ma questo gioco immaginato si rivelerà fallace. Ottilia arriva, richiamata da Carlotta, prende a vivere con la coppia e si dimostra una persona fuori del comune.
Le affinità prendono decisamente un altro corso e saranno Eduardo e Ottilia ad esser presi in un amore descritto da Goethe con tutti gli strumenti di quel romanticismo che non ha mai amato anche se, suo malgrado, ne fu uno dei massimi e precoci esponenti. Sarà questo amore che scompaginerà il precedente equilibrio “chimico”, visto che l'attrazione tra Carlotta e il capitano non avrà modo di evolvere.
La trama successiva (una sintesi qui), dalla partenza del capitano e poi di Eduardo, alla morte accidentale (per annegamento) del figlio di Eduardo e Carlotta che era stato affidato ad Ottilia, prende via via i toni della più cupa tragedia, fino al sacrificio finale, per rinuncia alla vita, di Ottilia; tutti i presagi intravisti sotto la superficie apparentemente levigata del romanzo (gli specchi d'acqua e il pericolo di affogare, una natura che si vorrebbe imbrigliare ma che non è mai ferma e muta, le feste preparate con cura che si rivelano insidiose e foriere di incidenti, bicchieri lanciati in aria che invece di spezzarsi vengono presi al volo) aprono le loro ali nere e svelano un  contenuto di morte. Costituiscono una sorta di materiale inerte che viene attivato solo quando l'azione di un determinato personaggio arriva in quel preciso punto di svolta. 

Le affinità elettive sono un romanzo complesso che va riletto forse più volte perché i rimandi e le allusioni interne (a parte quella alle affinità, apparentemente semplice) sono infinite e legate tra di loro, impossibili da cogliere la prima volta, anche perché la trama è avvincente. Pare che lo stesso Goethe abbia detto che nell'opera “c'è più di quanto chiunque possa scoprirvi a una sola lettura”.

Ecco come Walter Benjamin, il filosofo e critico letterario berlinese morto tragicamente nel 1940, che ha dedicato un saggio lucidissimo alle Affinità elettive, ci rivela i caratteri di questo plurimo registro.

Si narra che Goethe dava grande importanza al modo rapido e irresistibile in cui aveva fatto sopraggiungere la catastrofe. Nei tratti più segreti l'opera intera è intessuta di questo simbolismo [di morte]. Ma solo il sentimento a cui esso è familiare è in grado di accogliere senza sforzo il suo linguaggio, mentre alla visione oggettiva del lettore si presentano solo bellezze scelte. Solo in pochi passi Goethe ha dato anche ad essa un'inclinazione più precisa, e questi sono rimasti, nel complesso, i soli ad essere osservati. Essi si ricollegano tutti all'episodio del calice di cristallo, che, destinato a infrangersi, è raccolto al volo e rimane intatto. È il sacrificio della costruzione, che viene respinto all'atto della consacrazione della casa che è quella dove morirà Ottilia. Ma anche qui Goethe conserva il suo fare segreto, facendo nascere questo gesto dalla gioiosa euforia che esegue questo cerimoniale.
[…] Più tranquillamente, nel compleanno di Eduardo, la sua amica [Ottilia] consacra la cappella che sarà la loro futura tomba.”
(Walter Benjamin, “Le affinità elettive” in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962)


Goethe ritratto da Tischbein
Casa di Goethe - Frankfurt am Main
(Foto di Andrea Colasanti)
(Foto di Andrea Colasanti)






lunedì 13 agosto 2018


Elsa Morante

La storia ovvero uno scandalo che dura da duemila anni



Abbiamo scelto di terminare il brevissimo ciclo sulla Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza leggendo “La Storia” di Elsa Morante, pubblicato nel 1974. L'incontro per parlarne è stato il 10 gennaio.

Annamaria Ortese aveva un'autentica venerazione per Elsa Morante e poco dopo la pubblicazione del romanzo, il 16 maggio del 1975, le scrisse:

“... Un mese fa ho letto La Storia. Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana. Penso che una lode possa valere solo in questo caso. La stima che io ho di Lei, persona umana, è molto alta. Come scrittore, solo poche Sue pagine di scura bellezza mi erano note. Alla fine ho letto La Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana....
Non so di strutture e di altro. So di emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una letteratura, è passata la vita. E solo la vita - a umiliazione dei critici - è forma.”

La Storia è un libro poderoso e ambizioso, scandito da capitoli che per titolo hanno un anno, e ciascun capitolo inizia con un prologo, stampato in un corpo più piccolo, come quando nei manuali di storia o di letteratura si inserisce un approfondimento accessorio a quello del testo principale. Sono elenchi di fatti tra il resoconto giornalistico e la cronaca e il senso vero della loro presenza si comprende solo alla fine del libro. I fatti sono la Storia del titolo, quella in cui tutta l'umanità è stata partecipe, testimone e vittima durante la seconda guerra mondiale.

Primo Capitolo: “19..” (il primo e l'ultimo sono anni indefiniti). A volo di uccello si parte con le scoperte di inizio secolo, definito il “secolo atomico”, ma si segnala già che nulla è nuovo sotto il sole: “Anche il nuovo secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica: agli uni il potere agli altri la schiavitù”.
Segue una cronologia di sintesi della Prima Guerra Mondiale, delle premesse e della prima fase della Seconda.
A questo punto inizia la “Storia” del romanzo, di Ida Ramundo, di Ida e Ninnuzzo, di Ida e Useppe, di Ida come rappresentante degli umili, degli spaesati, degli oppressi. E inizia con uno stupro, il soldato Gunther violenta Ida, Ida rimane incinta e, di nascosto, da una levatrice presso San Giovanni in Laterano, darà alla luce Giuseppe, “Useppe”. Come il narratore onnisciente del romanzo classico, Morante torna indietro e ci racconta le origini della protagonista, che sembra aver conosciuto. Secondo molti (e molti di noi tra questi) è la parte più bella del libro: dei personaggi perfettamente connotati anche e soprattutto nei loro deliri (la madre di Ida, Nora Almagià, tiene segreta la sua origine ebraica, ed il timore di essere scoperta, covato tanto a lungo, si trasforma in un'ossessione fatale); un ambiente, quello bracciantile e quello piccolo borghese di una Calabria oppressa da “gerarchietti” locali, nel quale già si delinea l'impotenza di fronte alla prevaricazione, al quotidiano terrore scatenato dalle varie forme di follia mussoliniana.
Veniamo a sapere che Ida, a partire dai cinque anni, aveva iniziato a soffrire di epilessia. Nel descrivere a noi che leggiamo gli insulti del male in Ida, Morante ci dà già una chiave di lettura che lega la madre ad Useppe ed entrambi alla Storia: la malattia “veniva avvertita come una prova immane e senza colpa, la scelta inconsapevole di una creatura isolata che raccogliesse la tragedia collettiva”.
Ida sposa Alfio Mancuso, si trasferisce a Roma, a San Lorenzo, e fa la maestra (come i suoi genitori). Dopo quattro anni dal trasferimento a Roma nasce Nino, personaggio fondamentale, intelligente, irriverente, malandrino e soprattutto straordinariamente vitale. Il padre Alfio però muore presto.
Ida “avrà” come si è detto un figlio dal soldato Gunther, e lo chiamerà Giuseppe, come suo padre. Il bambino è minuscolo, per la malnutrizione, per essere stato tenuto fin dalla nascita nascosto in casa, in perenne debito di espansione vitale (quella di cui abbonda suo fratello), infine per il suo essere, per tutta la sua breve vita, un simbolo di ciò che dell'umano viene sovente trascurato: la tenerezza, la compassione, la mansuetudine.

Useppe, così il bambino chiama se stesso, ha un rapporto privilegiato con il fratello ma anche con un cane, Blitz, che muore sotto il bombardamento di San Lorenzo. Ecco: nel bombardamento di San Lorenzo, nel successivo sfollamento a Pietralata, nell'allucinato percorso di Ida dalle macerie del quartiere e poi, più tardi, nel fortuito incontro alla stazione del treno dei deportati a seguito del rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre, nella visita al Ghetto spopolato, arriva ciò che era preannunciato da tempo: il rullo compressore della Storia, i destini travolti dalla guerra, l'impotenza del singolo. La descrizione si fa ancora più prossima ai personaggi, quasi viscerale nel seguirne le vicende. A Pietralata un enorme capannone accoglie Ida e altri senzatetto: i memorabili “Mille”, gruppo cospicuo di sfollati napoletani che vivono in una promiscuità quasi bestiale ma che sono per Useppe fonte di meraviglia e umana simpatia. Qui entra in scena anche il personaggio forse più enigmatico del romanzo, Carlo Vivaldi, il cui nome è in realtà Davide Segre, anche lui partigiano, che ritroveremo più tardi.
I Mille se ne vanno e madre e figlio occupano da soli lo stanzone di Pietralata. Siamo alla fine del '43, vicini alla “soluzione finale”. Un'ordinanza riguardante i matrimoni misti mette Ida di fronte all'incubo di sua madre. Nino è andato partigiano, ma Useppe, anzi “Useppetto” il “piccolo paria senza razza, sottosviluppato, malnutrito, povero campione senza valore”, nel delirio neanche tanto delirante di Ida, è circondato da possibili carnefici. Inizia la bestiale lotta per il pane e Ida diventa ladra, nell'impossibile illusione di far crescere Useppe.
La guerra finisce ma nel mese di agosto del '45 vengono bombardate con l'atomica le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.

Comincia la pace, gli Ebrei tornano ma la Storia continua il suo corso cieco. Ninnarieddu rifiuta qualsiasi appartenenza politica e – dopo la lotta partigiana – decide di lottare ma solo per sé visto che “si sta sempre co' una scarpa e una ciavatta”. Con disperata protervia, rompe con i compagni, entra nel contrabbando e muore in un inseguimento della polizia in seguito a un furto. Ida non andrà al funerale, le risulterà impossibile credere che l'invulnerabilità del figlio, incolume dopo qualsiasi bravata, si sia infine spezzata. La sua fragilissima psiche deve fare i conti con le tante immagini del figlio che l'inconscio le propone quotidianamente, e con una frase che le ritorna ossessivamente “la colpa è tua, ma', la colpa è tua”. Come se il figlio le chiedesse ragione di averlo messo al mondo.

Intanto Useppe comincia ad andare a scuola e si comincia ad affacciare, inequivocabile, il male ereditato dalla madre, l'epilessia, le cui violente manifestazioni lasciano il suo debole fisico ogni volta più stremato.

Ma, proprio in questo punto del romanzo, quello che Cesare Garboli nell'introduzione dell'edizione Einaudi chiama il “punto di maggior depressione”, inizia la vera e propria epifania del romanzo: il Tevere, le sue rive da cui ci si può tuffare in un'acqua per niente infida, è il luogo incantato in cui Useppetto incontra pischelli che sembrano pirati, e poi alberi, insetti e uccelli con i quali parlare, capanne e radure. Un luogo in cui stare bene, nascondersi, godere del sole e dei giochi di Bella, il secondo cane che Useppe porta a spasso.
Ma gli insulti del male continuano, e Ida è sempre più sfinita dalla paura.
A questo punto c'è un lungo inserto che riguarda l'epilogo della vicenda di Davide Segre, il partigiano anarchico conosciuto a Pietralata, un personaggio forse autobiografico vittima in un certo senso di se stesso, di un rigore che non sa trovare uno sbocco nell'esistenza.
Davide muore, muoiono Useppe e muore Ida, che sopravvive nove anni, miserevolmente, al figlio. Ma, come il Panda minore della leggenda, di cui “si diceva che trascorresse dei millenni a pensare sul proprio albero: dal quale scendeva in terra ogni trecento anni. Ma in realtà, il calcolo di tali durate era relativo: difatti, nel mentre che in terra erano passali 300 anni, sull’albero di quel panda minore erano passati appena dieci minuti”, così – ci dice Morante alla fine del libro - Ida in realtà morì insieme al suo pischelletto Useppe e non nove anni dopo.

Alla sua uscita il libro suscitò un dibattito accesissimo, ci fu chi criticò aspramente l' assenza di speranza in un agire positivo dell'uomo implicita nella visione della Storia come Organizzazione Criminale che schiaccia e uccide soprattutto i deboli e gli inermi. Rossana Rossanda scrive per esempio: “L'ideologia del niente cambia e non ci resta che piangere non è moderna né progressiva. Chi lavora a una rivoluzione può liberarsi da tutte le rozze speranze fuorché una, che battersi è possibile”. I termini usati da Rossanda sono tuttavia più clementi di quelli di una lettera al Manifesto del 18 luglio 1974, in cui Balestrini, Silva, Rasy e Paolozzi, una stroncatura abbastanza feroce in cui si annovera Elsa Morante tra i nipotini di De Amicis e che definiva il libro una “scontata elegia della rassegnazione, un nuovo discorso delle beatitudini che l'ideologia della classe sfruttatrice trova del tutto funzionale al proprio attuale progetto economico.”
Si fa fatica oggi, dopo quarant'anni di eclisse delle rivoluzioni a ricostruire il clima e la passione politica in cui questi giudizi furono emessi ma – nei primi anni '70 – erano l'acqua in cui tutti, chi più chi meno, si era immersi...
Pasolini, che di Morante fu grande amico, scrisse in due riprese su “Tempo” una lunga recensione di cui si possono condividere molte cose. Come detto all'inizio, anzitutto la bellezza della prima parte (per Pasolini la sola bellissima); per il resto, secondo lo scrittore è un romanzo imperfetto, su cui Morante avrebbe dovuto lavorare di più (ci lavorò tre anni) ma che regge il confronto con i Karamazov. Non piace a Pasolini Useppe, che definisce “la vita esaltata in quanto tale”, celebrazione molto morantiana della joie de vivre dei poveri di spirito. Una critica molto forte è quella che riguarda il punto di vista: sarebbe stato meglio scegliere l'occhio di un personaggio ed evitare i tanti personaggi di maniera invece che affidarsi al “diligente e geniale ron-ron di Manierista Onnisciente”. È di maniera – secondo Pasolini – anche il pastiche tra filosofia (S. Paolo, Spinoza, induismo) e politica (anarchia) e l'ideologia decisa: La Vita è Bene e la Storia è Male.

In questo blog c'è la storia della vicenda critica e anche molti aspetti che qui si sono tralasciati.





martedì 17 luglio 2018

Fenoglio e Pavese

Beppe Fenoglio, Una questione privata



Questo blog va un po' a balzelloni: colpa degli impegni di noi tutti e della redattrice usuale soprattutto, ed è un po' difficile seguire il “senso” delle letture. Perché un senso c'è. Verso l'inizio dei nostri incontri avevamo scelto i premi Nobel, poi la scrittura femminile, poi il Mediterraneo e le sue voci; poi, durante l'autunno/inverno 2017-2018 abbiamo intrapreso, dopo “Il sentiero dei nidi di ragno”, una sorta di ciclo ideale sulla guerra e la Resistenza che partiva da “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, passava per “La casa in collina” di Pavese, per terminare con “La Storia” di Elsa Morante.
Neanche lontanamente è possibile dare conto di tutti gli intrecci, le idiosincrasie, gli agganci, i rimandi che ci sono venuti in mente tra questi libri e che abbiamo discusso nei nostri incontri e così iniziamo a fare un resoconto “minimo” dell'accoppiata Fenoglio/Pavese, rispettivamente discussi il 24 ottobre e il 24 novembre 2017, a un mese di distanza l'uno dall'altro
Diciamo anzitutto che Fenoglio ce lo ha in un certo senso “consegnato” Calvino.
Nell'introduzione al “Sentiero” infatti aveva scritto: “Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo e morì prima di vederlo pubblicato… Una questione privata … è costruito con la geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l'Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com'era, …con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. … È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione, non al mio.”

L'edizione Einaudi del 1986 contiene sia “Una questione privata” che “I ventitré giorni della città di Alba”. Il secondo, del 1952, è il primo libro pubblicato di Fenoglio mentre “Una questione privata” è uscito poco dopo la morte, nel 1963, così come postumo è il libro forse più famoso, anche per via della sperimentazione linguistica, “Il partigiano Johnny” comparso nel 1968 e che nelle intenzioni di Fenoglio doveva essere il cuore di una sorta di epopea della Resistenza.
Figlio di un macellaio di Alba, Amilcare, e di una donna che parlava unicamente il dialetto albese, forte e intelligente come il figlio, dopo la scuola dell'obbligo Beppe viene iscritto al liceo, dove nasce e si sviluppa la sua passione per la lingua inglese.
Entra nell'università nel '40 ma nel '43 viene richiamato alle armi, poco tempo prima dell'Otto settembre, e già nel gennaio del '44 entra nelle formazioni partigiane, prima con le Brigate Garibaldi, poi con i badogliani.
Sono gli anni in cui si situa la scena di entrambi i romanzi di Fenoglio ma, come abbiamo detto, entrambi sono stati pubblicati nel dopoguerra, con non poche polemiche della critica militante che stigmatizzava, dei Ventitré giorni, il tono beffardo e irriverente e, della Questione, il tono intimistico, esistenzialistico, e – appunto – privato.

Sicuramente Vittorini, con cui condivideva l'interesse per la lingua inglese, e Calvino, conosciuti quasi in contemporanea, furono determinanti per la sua affermazione visto che lo stimarono e lo incitarono alla scrittura e alla pubblicazione. Ma ancor più determinante fu il generale interesse verso un tipo di scrittura che dagli Stati Uniti mostrava come si potesse “ procedere ad orecchio della vita e non a riflessione sulla vita” (Vittorini). Vittorini, Pavese e Fenoglio – al di là delle numerose differenze - sono accomunati dalla ricerca di una prosa quanto più possibile aderente alla realtà, anche se diverse sono le declinazioni della “realtà”.

Breve sunto tratto dal sito www.centrostudibeppefenoglio.it:

Il romanzo, incompiuto, narra la vicenda del partigiano Milton, un giovane studente universitario che, durante un’azione nelle vicinanze di Alba, rivede la villa sulla collina dove era sfollata Fulvia, una ricca ragazza torinese, incontrata quasi due anni prima.
Milton ama Fulvia, ormai lontana: ricorda i momenti trascorsi insieme, le letture e la musica che hanno ascoltato; ma la villa, ora, è immersa in un’atmosfera di spettrale abbandono.
La custode, in un breve colloquio, rivela al giovane gli incontri avvenuti tra Fulvia e Giorgio Clerici, un comune amico. Il racconto suscita nell’animo di Milton un’angoscia profonda; e l’amore per Fulvia, l’amicizia per Giorgio, la gelosia, si fondono in un’unica passione ossessiva: il desiderio di conoscere la verità.
I temi fondamentali di questa storia romantica sono l’amore e la Resistenza; ma il tragico turbamento individuale prevale sulle vicende politiche.
Milton vuole incontrare Giorgio: comincia, quindi, la sua ricerca affannosa, in un paesaggio divenuto ostile per la presenza avvolgente di una fitta nebbia.
Giorgio Clerici è stato catturato dai fascisti e condotto ad Alba.
Milton organizza uno scambio: sequestra un sergente fascista, ma è obbligato ad ucciderlo, perché il prigioniero tenta di fuggire.
Il sospetto del tradimento di Fulvia e l’ansia di conoscere la verità non abbandonano il protagonista del romanzo: Milton decide di ritornare nella villa; ma incontra una colonna fascista che lo costringe ad una fuga quasi interminabile, ai limiti della resistenza umana.
L’eroe solitario, ormai estraneo alla realtà che lo circonda, corre fra il cielo e la terra; poi, crolla sotto gli alberi di un bosco che, protettivo, lo accoglie.


Questa la trama. Muore Milton? Si salva? “Gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò diritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”. I fratelli Taviani, che hanno tratto un film dal libro, preferiscono lasciare aperta la vicenda del protagonista: quel che è certo è che la caduta è la fine del deragliamento emotivo del protagonista e dunque è la fine del libro, inteso come ricerca forsennata e impossibile della verità.

Nel gruppo c'è stato un accordo fondamentale su quello che il libro lascia dopo la lettura. Non solo il senso del “furore” ariostesco di questo continuo andare, sprofondare nel fango, uccidere quasi per caso, ma anche la fisicità del paesaggio: sembra di toccare quella nebbia che oscura la vista, di sentire l'odore del cibo impervio che si cucina nei rifugi di fortuna. E, per contro, l'atmosfera rarefatta, intellettuale, o meglio cerebrale, della relazione con Fulvia prima del precipitare della storia. “Over the rainbow”, che ossessivamente girava nel grammofono della casa prima abitata poi deserta di Fulvia, è la colonna sonora di questa sorta di mancata storia d'amore, arcobaleno che annega nei tonfi, negli sprofondamenti e nel bianco e nero dello scenario in cui si muove il partigiano badogliano Milton, alter ego di Fenoglio: “Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello”.




Cesare Pavese – La casa in collina




Fenoglio muore per malattia a 41 anni, Pavese si toglie la vita a 42. Uomini giovani, per i parametri di oggi, già maturi per gli anni '50, quando la loro generazione si rimetteva in piedi dopo la guerra civile.
Entrambi originari delle Langhe, terra di poche parole e di ottimi vini (ma Pavese detestava il vino rosso), a giudicare dai ricordi di coloro che li hanno conosciuti, sembra che avessero personalità per parecchi versi simili, in cui un altissimo rigore intellettuale e morale si associava a un riserbo e a una ritrosia molto accentuati e, in Pavese, a una estrema vulnerabilità.

Si è spesso detto, a ragione, che Fenoglio abbia voluto, più che fare un affresco della Resistenza, dare conto dell'eterna lotta tra bene e male, come si ritrova nella poesia epica e come si trova nella amata letteratura inglese (Milton, nome di battaglia del protagonista de “Una questione privata”, è l'autore del Paradise lost). E c'è chi ipotizza, altrettanto a ragione, come la scelta della letteratura inglese rispetto a quella americana sia stata determinata dal bisogno di Fenoglio di distanziarsi dall'ombra ingombrante del “conterraneo” Pavese, affermato scrittore, che già nel 1932 si era cimentato con la traduzione del Moby Dick di Melville e che si era laureato con una tesi su Walt Whitman.

Di Pavese abbiamo scelto “La casa in collina” proprio perché è l'altro punto di vista rispetto alla guerra partigiana, quello di chi sceglie di non parteciparvi in prima persona.
Fu pubblicato nel 1949, insieme a “Il carcere” che però risale al 1938-39, parte di una trilogia che include anche “Il compagno”, pubblicato nel 1947.

Anche qui, come in “Una questione privata”, siamo intorno all'8 settembre 1943, immersi nella guerra civile.
Il racconto è in prima persona e certamente nei tratti del protagonista Corrado è riconoscibile Cesare, che rimane in città a svolgere il suo lavoro di professore, sale in collina la sera e dorme in una casa che gli offrono due donne, Elvira e sua madre: la casa in collina del titolo. Ha con sé il cane Belbo. Nei pressi c'è un'osteria in cui sta un partigiano di nome Fonso e altri, tra cui Cate, una donna con cui Corrado ha avuto una tormentata e amara storia d'amore a Torino, tempo prima. Cate ha con sé il figlio, che si chiama Dino. Corrado pensa sia suo figlio e si lega moltissimo a lui.
Corrado è antifascista ma sconta un'apatia che sconfina nella vigliaccheria, un tratto di sé che non gli piace ma che lo connota in profondità e origina dal profondo dissidio di un antifascismo che non sa farsi pratico.

Tu, che dici? Che cosa faresti – chiese Cate, seria.
Tacquero tutti, e mi guardavano.
Ammazzare, – dissi – levargli la voglia. Continuare la guerra qui in casa. […]-
Tu lo faresti? – disse Cate.
No, – risposi. – Ci sono negato.

Corrado è negato alla guerra; la guerra, spiega nelle prime pagine, è una sorta di tana in cui si è raccolto il sordo rancore con cui si è conclusa la gioventù. Un giorno, tornando in collina dalla città, assiste non visto all'arresto di Cate e degli altri da parte dei nazisti. Scappa e si rifugia a Chieri, in un collegio di preti, dove poco dopo lo raggiunge Dino. Ma non si sente al sicuro neanche lì e fugge di nuovo. A quel punto inizia una sorta di angosciato vagabondaggio per le colline; perde la strada (non è più il cammino consueto e tranquillizzante che lo portava, la sera, alla casa in collina: cerca la strada di casa dei suoi genitori ma non la riconosce più), assiste a un'imboscata di partigiani che ammazzano dei tedeschi. L'imboscata non è descritta, sono descritti solo, in modo indimenticabile, i morti ammazzati.
Il libro finisce con la guerra ancora in atto. Corrado, nell'ultimo capitolo che riassume tutte le sue riflessioni politiche, esistenziali e di relazione tra gli uomini e le donne, tra gli uomini e i propri nemici, fa alcune considerazioni, quasi una meditazione sulla morte. E lo fa con le frasi dall'andamento musicale cui ci ha abituato in tutto il breve testo, tipiche anche delle sue poesie; frasi “vere” in tutti i sensi possibili e che, una volta lette, non si dimenticano più. Parafrasando una frase della poesia “Ulisse”1:

Cesare ha un suo modo di parlare della guerra che, chi l'ha fatta, sa che può sentirlo compagno.

Ecco alcuni estratti del XXIII e ultimo capitolo:

“Ma ho visto i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante … Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.
Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

1 Il ragazzo ha un suo modo di uscire di casa che, chi resta, s'accorge di non farci più nulla.

giovedì 19 ottobre 2017

La lingua salvata - Elias Canetti



“La lingua salvata. Storia di una giovinezza” è il primo volume, comparso nel 1977, di un'autobiografia in tre parti (le altre sono: “Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-31)” e “Il gioco degli occhi. Storia di una vita (1931-37)”.
È dunque l'autobiografia dell'infanzia e dell'adolescenza di Elias Canetti, nato a Rustschuck (Ruse) in Bulgaria nel 1905. Tre anni dopo la sua nascita il suo paese diventava indipendente e poco dopo cominciavano le guerre balcaniche, da cui la Bulgaria uscì con un forte ridimensionamento territoriale.
Balcanica in età moderna e ottomana per cinque lunghi secoli, la Bulgaria è dunque una terra multiculturale e ha un rapporto pacifico con gli ebrei (Canetti è un ebreo di doppia origine sefardita, per via di padre e per via di madre): durante l'impero ottomano non c'erano ghetti e anzi il paese si era aperto agli ebrei espulsi dalla Spagna. Un atteggiamento di apertura che continua anche in epoca di persecuzioni naziste: Hannah Arendt ricorda ne “La banalità del male” che nel 1943 il metropolita ortodosso nascose il rabbino capo mentre la popolazione e il parlamento si opponevano alla deportazione degli ebrei arrivando a tentare di fermare un treno diretto verso i campi di sterminio.

Chiudiamo qui le divagazioni storiche e introduciamo Canetti con le sue stesse parole: è l'incipit di "Auto da fé", l'unico suo romanzo, del 1935 (ma pubblicato nel 1963):

Che fai qui bambino?
Niente.
E allora perché ci stai?
Così...
Sai già leggere?
Oh sì.
Quanti anni hai?
Nove compiuti
Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?
Un libro.

Dopo questo strano e arduo romanzo, definito da Thomas Mann “protervo e grandioso”,
che non fu capito e che è stato infatti pubblicato trent’anni dopo, Elias sente il bisogno di scrivere un racconto autobiografico. Al contrario del romanzo è un libro di facile lettura. Almeno apparentemente...

Si parte da Rustschuck e ci si immerge nel paradiso:

Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un'immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c'erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere degli «spagnoli» dove stavamo noi. C'erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i rumeni, e la mia balia, di cui però non mi ricordo, era una rumena. C'era anche qualche russo, ma erano casi isolati.
Essendo un bambino non avevo una chiara visione di questa molteplicità ma ne vivevo continuamente gli effetti.

In quest'ultima frase c'è forse il senso di tutto il libro, che in fondo non è altro che la storia di una educazione dentro alla molteplicità (parola chiave) delle culture e delle lingue. Un imprinting che ha prodotto un intellettuale, l'ultimo intellettuale del Novecento come è stato definito, allergico ai grandi sistemi teorici del suo secolo: in primis psicoanalisi e marxismo. Quasi un intellettuale “contro”, difficile da collocare criticamente. Continuiamo a divagare.... ma forse è l'unico modo per affrontare la scrittura di Canetti che sembra apparentemente molto organizzata, per moduli, per storie, per personaggi, ma che in realtà funziona come un tronco da cui partono rami da cui partono altri rami da cui ne partono altri, dove il fatto descritto non è che il nucleo di tasselli che vi si incastrano variamente. Anzitutto facciamo la conoscenza della famiglia, delle case in cui vivevano i suoi membri, dell'impareggiabile nonno paterno che si vanta di conoscere otto lingue (anche se in modo più che zoppicante) e che racconta con orgoglio di aver salvato la vita a un mercante su un battello del Danubio perché era riuscito ad orecchiare due uomini che volevano ucciderlo. Gli uomini parlavano greco, la lingua di Salonicco, città dove tanti ebrei della diaspora spagnola erano approdati. E lo spagnolo è la lingua che il piccolo Elias sente parlare in casa, uno spagnolo arcaico, risalente alla cacciata di fine '400.
E poi gli zingari, la paura e il fascino degli zingari che una volta alla settimana, il venerdì, arrivavano in un grande corteo con a capo il patriarca cieco, e avevano vesti colorate in cui dominava il rosso. Si sedevano nel cortile di casa Canetti e lì aspettavano doni e cibarie provenienti dalla cucina ebraica di quella casa, in attività per la cena dello Shabbat.
E poi, soprattutto, facciamo la conoscenza del personaggio centrale, Mathilde Arditti, la madre di Canetti, che lo forma, letteralmente. E lo forma attraverso la letteratura, anzi, attraverso i grandi personaggi della letteratura che secondo lei erano gli unici strumenti per una appassionata conoscenza degli uomini. La madre parla con il padre, Jaques Canetti, una lingua particolare, il tedesco, usata nei loro “felici anni di studio a Vienna”. Un linguaggio d'amore, che il figlio conoscerà molto più tardi e che sarà appunto – la lingua salvata.


Insomma, le prime pagine del libro ci restituiscono una vivacissima e molteplice vita di bambino, arricchita dalle favole popolari che gli raccontano le ragazze bulgare che venivano a prestare servizio in casa Canetti dalla campagna, storie piene di fantasmi e lupi mannari, cavalli e lupi che attraversano il Danubio ghiacciato.
Tutto ciò fino al 1911, quando la famiglia si trasferisce a Manchester in seguito alla decisione del padre di seguire gli affari di famiglia...
Comincia la carriera scolastica di Elias, che tanta parte avrà nel libro, e mentre impara con piacere la nuova lingua, la vita scorre tranquilla e avvolta dall'amore incondizionato del padre, figura dolcissima la cui tragica morte, per un improvviso attacco cardiaco, segna per sempre le vicenda familiari. Forse è proprio da allora che Elias dichiara guerra alla morte, e questa paradossale posizione – difficile da sintetizzare nei suoi contenuti teorici – fornirà la materia non solo al “Libro contro la morte”, ma anche alla sterminata messe di note e appunti che confluiranno nel monumentale “Massa e potere”, pubblicato nel 1960, al quale si era dedicato per 38 anni, dove la morte viene analizzata come uno strumento del potere.
La morte del padre avviene nel 1912 e da questo momento in poi avviene la saldatura affettiva, intellettuale, psicologica con la madre. Un rapporto simbiotico attorno al quale ruota tutto il libro e che probabilmente si struttura proprio intorno alla grande “mancanza” paterna. Secondo Luisa Marigliano, con la morte del padre la vita di Elias cambia totalmente:

La madre decide di insegnargli il tedesco. Glielo insegnerà senza ricorrere ad alcun sussidio didattico ma basandosi esclusivamente sull’oralità, sull’ascolto e la ripetizione di parole e frasi di cui Elias non comprendeva il significato. Possiamo immaginare i suoi balbettii incerti come quelli di un neonato. Il percorso fu lungo e doloroso ma alla fine lo condusse ad una seconda nascita non solo linguistica ma anche affettiva. Molto presto Elias Canetti iniziò a scrivere e lo lo fece in tedesco, la traduzione si compì spontaneamente nel suo inconscio.

Il libro procede come un mosaico di scene significative, piccoli aneddoti e scene tragiche, considerazioni (tasselli) su quello che una determinata scelta, un determinato episodio hanno provocato in futuro: alcuni di noi hanno visto in questo ricordare un andamento meccanico e poco in sintonia con la quantità di questioni emotive che vengono sollevate. E c'è sicuramente una differenza tra prima parte del libro, molto più vivace, con un'impronta quasi favolistica ed esotica, e la seconda parte, più “manualistica” ed elencativa, in cui gli avvenimenti (e persino le emozioni) sono trattati con un distacco “scientifico”, da entomologo, da esperto di “fenomenologia degli spinaci” come lo chiamava sarcasticamente la madre quando le sue passioni letterarie, da lei coltivate nel figlio, vengono offuscate da un interesse per la scienza.
La passione per gli aspetti scientifici dell'esistere nasce in Svizzera quando frequenta gli studi superiori.
Prima del soggiorno svizzero, Elias termina le elementari a Vienna. Qui avviene un fatto saliente: per la prima volta sperimenta il potere della massa: a soli nove anni, il primo agosto 1914, viene aggredito insieme ai fratellini dalla folla inferocita perché aveva cantato l'inno inglese in un parco proprio mentre veniva annunciato che la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia: “Io non compresi bene che cosa avessi fatto di male; a maggior ragione, quindi, quella prima esperienza di una massa ostile mi si impresse indelebilmente nell’animo.”
Dicevamo della Svizzera: è l'approdo del libro, quello in cui matura il distacco dalla madre, esito di un lungo dissidio amoroso marcato dalle scelte intellettuali. È infatti l'epoca in cui Canetti incontra una serie notevole di personaggi importanti dal punto di vista intellettuale e in cui comincia ad avere – se così si può dire – una sua idea del mondo.
La madre si ribella, crede che il figlio sia diventato un uomo staccato dalla realtà, perso inutilmente in studi inutili. Sente che l'educazione a una elevazione morale (questo era per lei il senso della letteratura) è ormai finito, il figlio ha preso un'altra strada. Stabilisce un trasferimento in Germania senza sentire ragioni: la Germania è un paese che ha vissuto la guerra, può togliergli i grilli da “fenomenologo degli spinaci” dalla testa e dargli una dura scuola di realtà. Elias sente che la felicità è perduta, la cacciata dal paradiso, come la chiama, inaugura la sua vita di adulto.




Canetti con il "battaglione" di matite con cui scrive

Due citazioni per terminare: una fa parte della lunga storia dell'amore tormentato con la madre e ci dà il senso della complessità di questo legame, della “forma” della personalità di Canetti così come è forgiata da questo rapporto, e l'altra è la citazione di un brano che era molto piaciuto a Caterina Nodaro e che invece dà il senso di cosa è per lui l'educazione in rapporto agli insegnanti.
Allora non sapevo ancora cosa è la vastità , eppure la intuivo : il poter contenere in sé moltissime cose, anche tra loro contraddittorie, sapere che tutto ciò che sembra inconciliabile sussiste tuttavia in un suo ambito, e questo sentirlo senza perdersi nella paura, e anzi sapendo che bisogna chiamarlo col suo nome e meditarci sopra: ecco la cosa che proprio da mia madre ho imparato, ed è la vera gloria della natura umana.
La diversità degli insegnanti era sorprendente, è la prima forma di molteplicità di cui si prende coscienza nella vita. Il fatto che essi ci stiano davanti così a lungo, esposti in tutte le loro reazioni osservati ininterrottamente per ore e ore, oggetto dell'unico vero interesse della classe, impossibilitati a muoversi e dunque presenti in essa sempre per lo stesso tempo, esattamente delimitato; la loro superiorità di cui non si vuole prendere atto una volta per tutte e che rende acuto, critico e maligno lo sguardo di chi li osserva; […] e poi il segreto in cui rimane avvolto il resto della loro vita, in tutto il tempo durante il quale non stanno recitando la loro parte davanti a noi […] - come tutto questo agisce e si manifesta, è un'altra specie di scuola, del tutto diversa da quella dell'apprendimento, una scuola che insegna la molteplicità della natura umana, e purché la si prenda sul serio anche solo in parte, è questa la prima vera scuola di conoscenza dell'uomo.



lunedì 2 ottobre 2017

Il sentiero dei nidi di ragno


Per discutere de “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino ci siamo incontrati in una calda serata di luglio sulla bella e ospitale terrazza di Valeria Curcio, in zona Quarto Miglio, allietati oltre che, come al solito, da ottimo cibo, anche da un magnifico tramonto con vista sul parco degli Acquedotti e molto altro.
Il libro di Calvino, la sua opera prima, si è aggiudicato l'ottavo posto nella nostra lista di preferiti tra i quarantadue letti e dunque grande è stato l'apprezzamento sia tra chi lo aveva già letto, sia tra chi lo leggeva per la prima volta.
Abbiamo naturalmente anche parlato a lungo della Prefazione, scritta dallo stesso Calvino nel 1964, diciassette anni dopo la prima edizione Einaudi del 1947. Non si tratta della semplice “introduzione” a un testo, ma di un fondamentale, mirabile e appassionato resoconto del clima letterario, sociale e politico dell'immediato secondo dopoguerra; nello stesso tempo un testo di critica letteraria e di note autobiografiche. Tra il 1964 di quella prefazione ed oggi è passato oltre un cinquantennio al centro del quale ha imperversato come un ciclone di vento maligno un feroce revisionismo che ha permeato così tanto l'opinione pubblica e il senso comune che Resistenza e Antifascismo sono oggi parole svuotate di significato e quasi obsolete. Questa prefazione è molto utile per liberarsi da quel vento e, se possibile, guardare avanti.
Calvino inizia ciascun paragrafo di questa prefazione con la frase “Questo romanzo è il primo che ho scritto...”. In effetti ha ventiquattro anni quando lo pubblica e - ci racconta - lo stile letterario che gli si è imposto (uno stile che non adotterà mai più in seguito) è quello neorealista, per il bisogno espressivo di dare voce a ciò che ha conosciuto e vissuto. Entrato nella Resistenza dopo l'8 settembre del '43 con il nome di “Santiago” (dal nome della città cubana dove era nato), conosceva molto bene un paesaggio e degli uomini e di questo vuole scrivere con verità. Una scelta etica, oltre che letteraria. Ma questa non è tutta la verità.


Anzitutto: scrive in una prima persona che non è “anagrafica” ma è quella, spostata in avanti, di un ragazzino, Pin, in bilico tra una fanciullezza negata e un'adolescenza precaria. Gli altri personaggi, fortemente caratterizzati, sono riferibili a persone che Calvino ha realmente conosciuto durante i mesi della lotta partigiana, ma “contraffatti, irriconoscibili”. Si rammarica, nella prefazione, di aver così caricato i caratteri dei suoi compagni “sotto la lente espressionistica” ma la contraffazione ha un senso poetico che gli permette di sfuggire a un doppio pericolo: la mitizzazione letteraria della Resistenza e la denigrazione revisionistica che era già in atto e che faceva leva sulla rappresentazione dei partigiani come dei pochi di buono mezzi o tutti delinquenti. Nel distaccamento del “Dritto” effettivamente sono tutti mezzi storti, come è storto Pin, l'unico che sa dove fanno i nidi i ragni e che è un personaggio dalla notevole complessità psicologica. Apparentemente è un picaro, un furfantello che le avversità della vita hanno scaraventato in un mondo adulto alieno e minaccioso, in cui si salva con espedienti vari. E la scelta di scrivere dal punto di vista di un ragazzo, oltre che dare al racconto un tono fiabesco, anche se di fiaba non lieve, è stato letto come una scelta di “leggerezza”, la leggerezza di cui scriverà Calvino nelle “Lezioni americane”, come racconta Silvana più sotto.
Ma va comunque tenuta presente l'identificazione dello scrittore con il suo personaggio, che non ha nulla di leggero: di nuovo nella Prefazione, Calvino definisce l'energia del giovane protagonista “una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l'indigenza del 'troppo giovane” e l'indigenza degli esclusi e dei reietti”. Una sensazione che conosce per averla vissuta quando “il maturare impetuoso dei tempi non aveva fatto che accentuare la mia immaturità”. Un gorgo drammatico di sentimenti, paure, spavalderie, fragilità...

Forse è in parte autobiografico anche il personaggio che sta al polo opposto rispetto a Pin, l'uomo adulto, padrone delle proprie azioni e dei propri pensieri, il comandante Kim, voce recitante del discusso capitolo IX che, come Calvino stesso spiega, tanto è stato visto come slegato dalla storia che gli è stato persino chiesto di toglierlo dal libro. Alla fine, pur comprendendo che l'”innesto ideologico” in esso contenuto rompeva l'omogeneità del libro, ha deciso di conservarlo perché in fin dei conti rispettava il carattere “spurio e composito” con cui il romanzo era stato concepito. In una scena quasi teatrale (anche se all'aperto) Calvino esce dalla narrazione delle disavventure di Pin e compagni, e per bocca di due personaggi, Kim e Ferriera, che finora non sono comparsi ma che hanno potere di vita e di morte su coloro che abbiamo fin qui conosciuto, dà conto di alcune importanti questioni: perché si uccide, cosa si difende stando da una parte o dall'altra, chi è che sta combattendo e perché.
Noi abbiamo conosciuto durante la lettura del libro il distaccamento del Dritto, nella descrizione di Kim “gente che non ha niente da difendere e niente da cambiare. Oppure tarati fisicamente, o fissati o fanatici. Un'idea rivoluzionaria in loro non può nascere, legati come sono alla ruota che li macina”. Questa gente, facilmente può passare da una parte all'altra. Eccoci al punto: è dunque la stessa cosa combattere da una parte o dall'altra? “la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena”. Gli spari sono gli stessi, ma conducono in posti diversi nella storia: qua dalla parte del riscatto, di là dall'altra parte, semplicemente. E su questo Zaira Tarragoni si è soffermata riflettendo sul senso di questo riscatto che non è, non solo, il riscatto altisonante, eroico, nobile che, a volte, sembra essere così distante dal quotidiano, ma il riscatto del contadino dall'ignoranza, dell'operaio dallo sfruttamento. È un riscatto concreto e reale contro tutte le umiliazioni. Questo è il vero significato della lotta.

Prima di lasciare la parola a Silvana, un' ultima considerazione: nella stampa generata da quel processo di revisionismo dal volto feroce di cui si è detto, si è millantato il bisogno di “dare la parola a chi è stato per anni costretto a tacere dall'arroganza dei vincitori” (così l'ineffabile Giampaolo Pansa). E invece il lato oscuro della Resistenza, le sue ambivalenze o “stramberie” erano stati rappresentati già – e in forma letteraria altissima – da Calvino e da Fenoglio, oltreché naturalmente da numerosi storici.

“Una questione privata” di Beppe Fenoglio sarà la nostra prossima lettura. Non è un caso che l'abbiamo scelto: lasciamo la parola al Calvino della Prefazione al “Sentiero” e alle sue riflessioni sulla letteratura della Resistenza:

“Ma ci fu chi continuò sulla via di quella prima frammentaria epopea: in genere furono i più isolati, i meno “inseriti” a conservare questa forza. E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo (Una questione privata) e morì prima di vederlo pubblicato […]
Una questione privata […] è costruito con la geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l'Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com'era, […] con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. […] È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione, non al mio.”


Luisa Marigliano ha fatto una piccola ricerca sui genitori di Italo Calvino e ne sono usciti fuori ritratti che davvero sembrano usciti da un libro di avventura:

I genitori di Italo Calvino erano delle persone assolutamente fuori dal comune.
La madre, Eva Mameli, era imparentata con Goffredo Mameli, l’autore dell’inno nazionale. Nacque a Cagliari nel 1886 e fu la prima ragazza a frequentare un liceo pubblico cagliaritano riservato ai maschi e fu la prima docente donna all’università di Cagliari ove insegnava botanica. Sposò Mario Calvino con il quale ebbe 2 figli, Italo e Floriano. Quando il marito si trasferì, per motivi di sicurezza, a Cuba, lei lo seguì. Rientrarono in Italia nel 1925, Italo aveva 2 anni. Fu una donna estremamente coraggiosa tanto da non fuggire dai fascisti che inscenarono una finta fucilazione per ottenere da lei informazioni sui figli che erano entrati a far parte della lotta partigiana. Alla caduta del regime diresse la rivista ‘Giardino Fiorito’ e rispondeva a chi le scriveva per consigli sul giardinaggio.
Il padre, Mario, nacque a Sanremo nel 1875. Proveniva da una famiglia di mazziniani, anticlericali e massoni. Fu coinvolto in un intricato caso collegato al fallito attentato all’imperatore Nicola II. L’attentatore aveva con sé il passaporto e la tessera di giornalista di Mario Calvino che sostenne di aver subito il furto di tali documenti mentre viaggiava in treno e che, a causa dei suoi numerosi impegni, aveva dimenticato di denunciare il furto. Nel gennaio del 1909, sentendosi in pericolo, approfittò di un viaggio di lavoro in Francia e si imbarcò per gli Stati Uniti da cui raggiunse il Messico ove prese parte alla rivoluzione di Pancho Villa. Nel 1917 accettò l’incarico di Direttore della Stazione Sperimentale di agricoltura a Santiago de Las Vegas vicino all’Avana, a Cuba. Nella Biblioteca civica di Sanremo si trova il grande Fondo Mario Calvino e Eva Mameli Calvino donato alla città da Italo e Floriano Calvino nel 1979, anno di morte della mamma. Di tale fondo fanno parte 42.000 pubblicazioni, 1.000 volumi monografici, 212 periodici, 10.000 opuscoli e molte fotografie.

E queste - come anticipato – sono le considerazioni di Silvana Pestilli:

Forse le colline intorno a San Remo non sono più quel paradiso terrestre descritto nel “Sentiero dei nidi di ragno” dove Pin scorrazza abbuffandosi di fragole o di ciliegie, i cui noccioli gli servono, come nelle fiabe, per lasciare traccia di sé a Lupo Rosso. Un paradiso di ulivi, castagni, ciliegi, rododendri, torrenti, frullare d’ali che accoglie Pin tra cielo e lembi di mare che appaiono e scompaiono dietro le colline. Per meraviglie le colline di Pin rivaleggiano con l’isola di Arturo, ed esse fanno da volano alle fantasie e ai sogni eroici dei due bambini, entrambi abbandonati a se stessi. Se però nell’opera della Morante c’è la struggente consapevolezza che quel paradiso terrestre rievocato da Arturo è un paradiso perduto come quello dell’infanzia ( “L’isola di Arturo” viene scritta una decina d’anni dopo il Sentiero, a metà degli anni 50, con speculazioni edilizie in corso), nel “Sentiero” non si avvertono ancora insidie per quello stato di natura intatto.
In questo paesaggio favoloso, a ridosso del vecchio paese di carrugi bui e maleodoranti dove Pin, orfano dei genitori, vive con la sorella prostituta, la Nera di Carrugio Lungo, si intrecciano le avventure del piccolo e sfrontato vagabondo, con quelle di una banda sgangherata di Resistenti , quella del Dritto, variegata e alquanto ridicola.
Il Sentiero è un libro di guerra, ma il fatto che a raccontarne gli avvenimenti tragici - imboscate rastrellamenti tradimenti morti - sia Pin, attraverso il suo sguardo di bambino vecchio, ingenuo e spietato insieme, rende inusuale la prospettiva. I Resistenti , come nelle fiabe, sono personaggi deformati : il cuoco dell’ accampamento partigiano, il trotzkista Mancino, ha sempre sulle spalle un falchetto, Babeuf, che rimanda ai poveri capponi di Renzo: più il cuoco gesticola infervorato dalle sue stesse arringhe comuniste, che danno sui nervi a tutti, più Babeuf svolazza su e giù per la sua spalla; e il lettore di super gialli, Zena il Lungo, pigro al punto da non portare mai pesi quando si marcia nonostante le sue spalle da camallo, non smette di leggere neanche in battaglia: appoggia il libro sul mitragliere nelle pause di lettura usando il pollice come segnalibro e, al contrario di Mancino, coltiva sogni “liberisti”: pensa di andarsene in America quando finirà la guerra. Anche gli altri Resistenti non sono da meno in stramberia e inaffidabilità; e Pin si ritrova con loro a fare vita d’accampamento, all’ombra di una distesa di rododendri, tra episodi tragicomici di violenza e sesso , dei quali subisce la fascinazione spesso senza afferrarne il senso.
Sembrerebbe che tali personaggi abbiano parecchio in comune con i personaggi grotteschi di tanti film dei Coen ma solo apparentemente: per il disincanto con cui i due registi americani osservano l’abisso umano essi sono irrecuperabili nella loro idiozia; Calvino invece, pur deformandoli nei loro tic, attraverso lo sguardo straniante di Pin, disvela, dietro tali stramberie, in un’alternanza di finzione e realtà, vite cariche di “un’umanità ribollente di spietatezza e di natura” di cuochi, camerieri, contadini, ex carabinieri, che sperano, anche se confusamente, in un futuro migliore che ne riscatti le sofferenze .
Il capitolo IX, il cosiddetto capitolo “ideologico”, ha una sua utilità nel rappresentare l’idea che lo scrittore ha della guerra e di quanto essa gli sia incomprensibile, così come è incomprensibile al bambino il mondo degli adulti;“l’euforia di poter ricominciare da zero” propria di quegli anni, di chi crede nel progresso della storia che, anche con i suoi tempi lunghi, sarà portatrice di un futuro di uguaglianza democrazia libertà. Inoltre in tale capitolo, Calvino rende nota la sua posizione verso chi si è ritrovato a combattere dall’altra parte: la parte sbagliata; ed essa non è di condanna manichea, perché, anche in questo caso, si sono affidate speranze a ideologie: ”solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”.
Nel “Sentiero” già si respira aria di Leggerezza: il valore letterario cui lo scrittore dedicherà la prima delle “Lezioni americane”. Ne cito un passaggio: “Mentre mi sentivo già catturare dalla morsa di pietra, come mi succede ogni volta che tento una rievocazione storico-autobiografica ( e il Sentiero è tale) ecco che Perseo mi viene in soccorso”. E infatti come Perseo, volando con i suoi calzari alati, riesce a decapitare la Medusa non guardandola direttamente ma guardandone l’immagine riflessa nello scudo, così Calvino si serve di uno “sguardo di scorcio”: gli occhi di un bambino, per raccontare la sua esperienza della Resistenza, sfrondandola da pesantezze retoriche, senza farsi “pietrificare” dall’ideologia. Ancora dalle Lezioni americane: “È in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, non fughe nel sogno o nell’irrazionale, bensì nel guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica …”. Celandosi dietro la visione indiretta dello sguardo di Pin, Calvino può alternare finzione e realtà pur non perdendo mai di vista gli orrori di quest’ultima: orrori filtrati dall’ingenuità del bambino, che evita all’autore derive patetiche. E grazie al fatto che a narrare è un bambino, Calvino, pur aderendo ai temi realistico-sociali del neorealismo, può sottrarsi agli “imperativi categorici dell’epoca” di celebrazione agiografica della Resistenza , mantenendo la libertà di interpretare gli eventi senza farsene, per l’appunto, “pietrificare”. Ne risulta una scrittura leggera, colorita dal dialetto e immediata . Scrittura che, pur nutrendosi di fatti, ne elude “l’opacità e la vischiosità“ plasmandoli al suo “ritmo interiore picaresco”; ed essa assume, nel vortice e nelle “giravolte” incalzanti degli avvenimenti, “l’agilità scattante e tagliente”, realizzando l’altro valore da lui espresso nelle celebri Lezioni americane: la Rapidità.
Così “Il Sentiero” - prima opera di Calvino- scritto nel 1946, contiene valori letterari rappresentati nelle Lezioni americane, scritte nel 1985, che l’autore intendeva portare , come valori imperdibili della letteratura, nel nuovo millennio allora alle porte, e che erano stati la sua cifra identitaria lungo l’arco di “quarant’anni di scrittura di fiction”.

Il critico Pietro Citati, grande amico di Calvino, raccontava in un’ intervista: “Due anni dopo la morte di Italo l’ho sognato. Lui mi diceva che non era morto. Mi diceva che il tragico non è la forma essenziale del mondo”.