Elsa Morante
La storia ovvero uno
scandalo che dura da duemila anni
Abbiamo scelto di terminare il
brevissimo ciclo sulla Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza
leggendo “La Storia” di Elsa Morante, pubblicato nel 1974.
L'incontro per parlarne è stato il 10 gennaio.
Annamaria Ortese aveva un'autentica
venerazione per Elsa Morante e poco dopo la pubblicazione del
romanzo, il 16 maggio del 1975, le scrisse:
“... Un mese fa ho letto La Storia.
Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana.
Penso che una lode possa valere solo in questo caso. La stima che io
ho di Lei, persona umana, è molto alta. Come scrittore, solo poche
Sue pagine di scura bellezza mi erano note. Alla fine ho letto La
Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e
poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli
della più grande tradizione italiana....
Non so di strutture e di altro. So di
emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una
letteratura, è passata la vita. E solo la vita - a umiliazione dei
critici - è forma.”
La Storia è un libro poderoso e
ambizioso, scandito da capitoli che per titolo hanno un anno, e
ciascun capitolo inizia con un prologo, stampato in un corpo più
piccolo, come quando nei manuali di storia o di letteratura si
inserisce un approfondimento accessorio a quello del testo
principale. Sono elenchi di fatti tra il resoconto giornalistico e la
cronaca e il senso vero della loro presenza si comprende solo alla
fine del libro. I fatti sono la Storia del titolo, quella in cui
tutta l'umanità è stata partecipe, testimone e vittima durante la
seconda guerra mondiale.
Primo Capitolo: “19..” (il primo e
l'ultimo sono anni indefiniti). A volo di uccello si parte con le
scoperte di inizio secolo, definito il “secolo atomico”, ma si
segnala già che nulla è nuovo sotto il sole: “Anche il nuovo
secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica:
agli uni il potere agli altri la schiavitù”.
Segue una cronologia di sintesi della Prima Guerra Mondiale, delle premesse e della prima fase della Seconda.
Segue una cronologia di sintesi della Prima Guerra Mondiale, delle premesse e della prima fase della Seconda.
A questo punto inizia la “Storia”
del romanzo, di Ida Ramundo, di Ida e Ninnuzzo, di Ida e Useppe, di
Ida come rappresentante degli umili, degli spaesati, degli oppressi.
E inizia con uno stupro, il soldato Gunther violenta Ida, Ida rimane
incinta e, di nascosto, da una levatrice presso San Giovanni in
Laterano, darà alla luce Giuseppe, “Useppe”. Come il narratore
onnisciente del romanzo classico, Morante torna indietro e ci
racconta le origini della protagonista, che sembra aver conosciuto.
Secondo molti (e molti di noi tra questi) è la parte più bella del
libro: dei personaggi perfettamente connotati anche e soprattutto nei
loro deliri (la madre di Ida, Nora Almagià, tiene segreta la sua
origine ebraica, ed il timore di essere scoperta, covato tanto a
lungo, si trasforma in un'ossessione fatale); un ambiente, quello
bracciantile e quello piccolo borghese di una Calabria oppressa da
“gerarchietti” locali, nel quale già si delinea l'impotenza di
fronte alla prevaricazione, al quotidiano terrore scatenato dalle
varie forme di follia mussoliniana.
Veniamo a sapere che Ida, a partire dai
cinque anni, aveva iniziato a soffrire di epilessia. Nel descrivere a
noi che leggiamo gli insulti del male in Ida, Morante ci dà già una
chiave di lettura che lega la madre ad Useppe ed entrambi alla
Storia: la malattia “veniva avvertita come una prova immane e senza
colpa, la scelta inconsapevole di una creatura isolata che
raccogliesse la tragedia collettiva”.
Ida sposa Alfio Mancuso, si trasferisce
a Roma, a San Lorenzo, e fa la maestra (come i suoi genitori). Dopo
quattro anni dal trasferimento a Roma nasce Nino, personaggio
fondamentale, intelligente, irriverente, malandrino e soprattutto
straordinariamente vitale. Il padre Alfio però muore presto.
Ida “avrà” come si è detto un
figlio dal soldato Gunther, e lo chiamerà Giuseppe, come suo padre.
Il bambino è minuscolo, per la malnutrizione, per essere stato
tenuto fin dalla nascita nascosto in casa, in perenne debito di
espansione vitale (quella di cui abbonda suo fratello), infine per il
suo essere, per tutta la sua breve vita, un simbolo di ciò che
dell'umano viene sovente trascurato: la tenerezza, la compassione, la
mansuetudine.
Useppe, così il bambino chiama se
stesso, ha un rapporto privilegiato con il fratello ma anche con un
cane, Blitz, che muore sotto il bombardamento di San Lorenzo. Ecco:
nel bombardamento di San Lorenzo, nel successivo sfollamento a
Pietralata, nell'allucinato percorso di Ida dalle macerie del
quartiere e poi, più tardi, nel fortuito incontro alla stazione del
treno dei deportati a seguito del rastrellamento del Ghetto del 16
ottobre, nella visita al Ghetto spopolato, arriva ciò che era
preannunciato da tempo: il rullo compressore della Storia, i destini
travolti dalla guerra, l'impotenza del singolo. La descrizione si fa
ancora più prossima ai personaggi, quasi viscerale nel seguirne le
vicende. A Pietralata un enorme capannone accoglie Ida e altri
senzatetto: i memorabili “Mille”, gruppo cospicuo di sfollati
napoletani che vivono in una promiscuità quasi bestiale ma che sono
per Useppe fonte di meraviglia e umana simpatia. Qui entra in scena
anche il personaggio forse più enigmatico del romanzo, Carlo
Vivaldi, il cui nome è in realtà Davide Segre, anche lui
partigiano, che ritroveremo più tardi.
I Mille se ne vanno e madre e figlio
occupano da soli lo stanzone di Pietralata. Siamo alla fine del '43,
vicini alla “soluzione finale”. Un'ordinanza riguardante i
matrimoni misti mette Ida di fronte all'incubo di sua madre. Nino è
andato partigiano, ma Useppe, anzi “Useppetto” il “piccolo
paria senza razza, sottosviluppato, malnutrito, povero campione senza
valore”, nel delirio neanche tanto delirante di Ida, è circondato
da possibili carnefici. Inizia la bestiale lotta per il pane e Ida
diventa ladra, nell'impossibile illusione di far crescere Useppe.
La guerra finisce ma nel mese di agosto
del '45 vengono bombardate con l'atomica le città giapponesi di
Hiroshima e Nagasaki.
Comincia la pace, gli Ebrei tornano ma
la Storia continua il suo corso cieco. Ninnarieddu rifiuta qualsiasi
appartenenza politica e – dopo la lotta partigiana – decide di
lottare ma solo per sé visto che “si sta sempre co' una scarpa e
una ciavatta”. Con disperata protervia, rompe con i compagni, entra
nel contrabbando e muore in un inseguimento della polizia in seguito
a un furto. Ida non andrà al funerale, le risulterà impossibile
credere che l'invulnerabilità del figlio, incolume dopo qualsiasi
bravata, si sia infine spezzata. La sua fragilissima psiche deve fare
i conti con le tante immagini del figlio che l'inconscio le propone
quotidianamente, e con una frase che le ritorna ossessivamente “la
colpa è tua, ma', la colpa è tua”. Come se il figlio le chiedesse
ragione di averlo messo al mondo.
Intanto Useppe comincia ad andare a
scuola e si comincia ad affacciare, inequivocabile, il male ereditato
dalla madre, l'epilessia, le cui violente manifestazioni lasciano il
suo debole fisico ogni volta più stremato.
Ma, proprio in questo punto del
romanzo, quello che Cesare Garboli nell'introduzione dell'edizione
Einaudi chiama il “punto di maggior depressione”, inizia la vera
e propria epifania del romanzo: il Tevere, le sue rive da cui ci si
può tuffare in un'acqua per niente infida, è il luogo incantato in
cui Useppetto incontra pischelli che sembrano pirati, e poi alberi,
insetti e uccelli con i quali parlare, capanne e radure. Un luogo in
cui stare bene, nascondersi, godere del sole e dei giochi di Bella,
il secondo cane che Useppe porta a spasso.
Ma gli insulti del male continuano, e
Ida è sempre più sfinita dalla paura.
A questo punto c'è un lungo inserto
che riguarda l'epilogo della vicenda di Davide Segre, il partigiano
anarchico conosciuto a Pietralata, un personaggio forse
autobiografico vittima in un certo senso di se stesso, di un rigore
che non sa trovare uno sbocco nell'esistenza.
Davide muore, muoiono Useppe e muore
Ida, che sopravvive nove anni, miserevolmente, al figlio. Ma, come il
Panda minore della leggenda, di cui “si diceva che trascorresse dei
millenni a pensare sul proprio albero: dal quale scendeva in terra
ogni trecento anni. Ma in realtà, il calcolo di tali durate era
relativo: difatti, nel mentre che in terra erano passali 300 anni,
sull’albero di quel panda minore erano passati appena dieci
minuti”, così – ci dice Morante alla fine del libro - Ida in
realtà morì insieme al suo pischelletto Useppe e non nove anni
dopo.
Alla sua uscita il libro suscitò un
dibattito accesissimo, ci fu chi criticò aspramente l' assenza di
speranza in un agire positivo dell'uomo implicita nella visione della
Storia come Organizzazione Criminale che schiaccia e uccide
soprattutto i deboli e gli inermi. Rossana Rossanda scrive per
esempio: “L'ideologia del niente cambia e non ci resta che piangere
non è moderna né progressiva. Chi lavora a una rivoluzione può
liberarsi da tutte le rozze speranze fuorché una, che battersi è
possibile”. I termini usati da Rossanda sono tuttavia più clementi
di quelli di una lettera al Manifesto del 18 luglio 1974, in cui
Balestrini, Silva, Rasy e Paolozzi, una stroncatura abbastanza feroce
in cui si annovera Elsa Morante tra i nipotini di De Amicis e che
definiva il libro una “scontata elegia della rassegnazione, un
nuovo discorso delle beatitudini che l'ideologia della classe
sfruttatrice trova del tutto funzionale al proprio attuale progetto
economico.”
Si fa fatica oggi, dopo quarant'anni di
eclisse delle rivoluzioni a ricostruire il clima e la passione
politica in cui questi giudizi furono emessi ma – nei primi anni
'70 – erano l'acqua in cui tutti, chi più chi meno, si era
immersi...
Pasolini, che di Morante fu grande
amico, scrisse in due riprese su “Tempo” una lunga recensione di
cui si possono condividere molte cose. Come detto all'inizio,
anzitutto la bellezza della prima parte (per Pasolini la sola
bellissima); per il resto, secondo lo scrittore è un romanzo
imperfetto, su cui Morante avrebbe dovuto lavorare di più (ci lavorò
tre anni) ma che regge il confronto con i Karamazov. Non piace a
Pasolini Useppe, che definisce “la vita esaltata in quanto tale”,
celebrazione molto morantiana della joie de vivre dei poveri
di spirito. Una critica molto forte è quella che riguarda il punto
di vista: sarebbe stato meglio scegliere l'occhio di un personaggio
ed evitare i tanti personaggi di maniera invece che affidarsi al
“diligente e geniale ron-ron di Manierista Onnisciente”. È di
maniera – secondo Pasolini – anche il pastiche tra filosofia (S.
Paolo, Spinoza, induismo) e politica (anarchia) e l'ideologia decisa:
La Vita è Bene e la Storia è Male.
In questo blog c'è la storia della
vicenda critica e anche molti aspetti che qui si sono tralasciati.
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