mercoledì 10 ottobre 2018


Le Affinità elettive di Johann Wolfgang Goethe


Al nostro gruppo di lettura piace molto variare i percorsi e così, dopo la serie Seconda Guerra Mondiale e Resistenza, abbiamo virato sulla letteratura dell'Ottocento. Il nuovo ciclo sarà composto da testi scelti da ciascuna di noi, a turno rigorosamente alfabetico. Alessia, la prima, ha scelto “Le affinità elettive” (al singolare in tedesco: Die Wahlverwandtshaften) di Johann Wolfgang Goethe, un romanzo pubblicato nel 1809.
Ci siamo incontrate il primo marzo di quest'anno. Il verbo è al femminile perché ormai il gruppo è solo femminile. Peccato, perché il punto di vista dell'altro genere avrebbe potuto essere molto interessante, soprattutto nel caso di questo libro. Il titolo richiama una legge della chimica degli elementi ma in realtà le affinità di cui si parla nel testo sono tra uomo e donna.
La struttura è apparentemente schematica: quattro protagonisti, alcuni comprimari, una vicenda che inizia con un passo di danza leggero, quasi leggiadro, e finisce nella tragedia. Sono molti gli incastri, ma la trama in fondo è molto semplice, molto classica, anche se di un classicismo molto sui generis.

Stiamo parlando infatti di Goethe, uno degli scrittori più importanti dell'intera storia della letteratura occidentale, tradizionalmente posto accanto a Dante e a Shakespeare. Una biografia monumentale che, oltre tutto, si svolge in uno spartiacque storico (crisi dell'Ancien régime, Rivoluzione francese, imprese di Napoleone, suo tramonto, Restaurazione) e che ha, anche solo per questo, un destino di ambivalenza, di compresenza di elementi discordi, di anticipazione e di attardamento. A queste motivazioni storiche si aggiunge una straordinaria curiosità e un interesse per un numero impressionante di soggetti e temi: Goethe studia mineralogia, chimica, ingegneria, anatomia, botanica e poi l'inglese, l'italiano, oltre naturalmente le lingue classiche. Non solo, in Goethe tutti questi elementi si fondono organicamente, e questo determina l'unicità e la grandezza del personaggio (il suo leggendario equilibrio “olimpico”), oltre alla quantità e alla qualità delle sue opere.

Non è un caso che in un libro piuttosto tardo come “Le affinità elettive” il titolo stesso rimandi alla chimica inorganica da lui studiata in gioventù.
Le affinità elettive” sono datate, come dicevamo, al 1809. Goethe è nato nel 1749 a Francoforte sul Meno, dunque ha sessant'anni e ha già scritto molte opere, di natura diversissima, a riprova di quella ricerca costante che in realtà di olimpico ha ben poco, e che è anzi indizio e prova di una personalità ambiziosa, cui nessun campo del sapere risulta estraneo e che all'esercizio della letteratura associa fin da subito quello della scienza.

Dicevamo del passo di danza con cui inizia il romanzo: è appena trascorsa “l'ora più bella di un pomeriggio d'aprile” e due affabili sposi non più giovanissimi sono alle prese con l'ammodernamento della vasta proprietà rurale dove hanno deciso di vivere. Ci sono giardini da sistemare, nuovi padiglioni da costruire, palazzine da riadattare. Tra di loro c'è una comunicazione aperta e uno stile di vita che si capisce appartenere ad una borghesia ricca e colta.
Con pochissimi tocchi di pennello Goethe dipinge due diversi tipi di affabilità: nell'uno, Eduardo, che ha “tempra di emotivo”, è di tipo estroverso, comunicativo, nell'altra, è invece un'affabilità pacata e razionale. Carlotta non si tira indietro di fronte a nessuna discussione ma mantiene sempre, nella dialettica, arguzia, tatto e ironia, scansando con eleganza gli eventuali punti critici, facendo valere con pacatezza e decisione la propria opinione.
Veniamo subito a sapere che Eduardo vorrebbe ospitare un suo amico, il “capitano”, per ora lo si chiama così. Assennata, Carlotta propone di analizzare la cosa “sotto diversi aspetti”. Analizza la situazione attuale della coppia alla luce della storia che l'ha preceduta (ottimo espediente per farla conoscere a noi lettori): un matrimonio precedente per entrambi, una figlia – di lei – messa in collegio per darle un'educazione più completa di quella che avrebbe potuto avere in campagna; una nipote, sempre di Carlotta, Ottilia, a lei molto cara, allontanata affinché lei ed Eduardo potessero “godere indisturbati di una felicità desiderata con tanto ardore precoce e ottenuta tardi”. Carlotta teme che l'arrivo di un estraneo – per quanto molto intimo del marito - possa turbare l'equilibrio conquistato negli anni. Eduardo non capisce l'ostinazione della moglie che, peraltro, dopo una sfilza di ottimi motivi razionali (o presunti tali) dice una frase che sa di superstizione e che getta un'ombra sul futuro: “ho come un cattivo presentimento”. E lo abbiamo anche noi: l'evocazione dello sconosciuto (per ora) capitano non ci rassicura, e non capiamo perché ...
Goethe è abilissimo a spargere sotto la superficie adamantina del racconto segni di inquietudine. Sappiamo per esempio che Carlotta si adatta a seguire al pianoforte il marito che suona il flauto molto male perché gli erano mancate la pazienza e la tenacia. In una parola non sono affiatati.
Arriva per primo il capitano e scopriamo che lui ed Eduardo hanno lo stesso nome: Ottone è il secondo nome di Eduardo e il primo del capitano. Se fossimo molto maliziosi potremmo già considerare che Ottilia è il femminile di Ottone …
Intanto i tre (Carlotta, Eduardo e Ottone) prendono visione della tenuta; le sue alture, i suoi boschetti, gli specchi d'acqua, suscitano nel capitano delle proposte di misurazione, rilevamento e infine di rappresentazione grafica della tenuta. Si mette mano a questa attività sommamente razionale che entusiasma Eduardo, unisce i due uomini ma scontenta Carlotta che amava moltissimo ciò che era già stato intrapreso sotto la sua guida e che ora – sotto la sferza del raziocinio misuratore del capitano – è messo in pericolo.
L'isolamento di Carlotta viene alleviato dalle lettere che le giungono dal collegio dove risiedono sia Luciana, sua figlia, che Ottilia, sua nipote. La descrizione di quest'ultima che si ricava dalle lettere della direttrice del collegio e dell'educatore è davvero singolare: ne risulta una persona che sembra mantenga un segreto, che si tira indietro per quanto riguarda se stessa e al contempo è sempre pronta ad aiutare gli altri, perfino servizievole.
In una conversazione tra Carlotta, Eduardo e Ottone si annuncia la teoria delle affinità chimiche, introdotta dal capitano con l'aiuto di esempi tratti dal mondo delle relazioni umane per renderla più comprensibile. La parte più interessante è quando si passa ad esaminare cosa succede ad elementi che normalmente si respingono nel momento in cui interviene un terzo elemento come la soda, che fa legare l'olio e l'acqua, che normalmente se mescolati si separano. Dunque le sostanze che subito si compenetrano si chiamano “affini” (alcali e sali, ad esempio). Ma le affinità sono davvero interessanti quando producono separazioni. Il calcare è una terra calcarea combinata con un acido leggero, una sorta di gas. Se si immerge il calcare in acido solforico, “questo attacca la calce e si trasformano in gesso, mentre quell'acido leggero e aeriforme si libera. In tal modo è avvenuta una separazione e una nuova combinazione e ci si sente davvero autorizzati ad impiegare la parola affinità”.
Siamo avvertiti e intuiamo già in un certo senso ciò che succederà, tanto più che Carlotta aggiunge che in fondo “non si tratta che dell'occasione”. Tanto più che segue un gioco dove si immagina che A sia Carlotta, B Eduardo, C il capitano. C sta distogliendo B da A. Se Carlotta volesse “dileguarsi” avrebbe bisogno di un “D” e questo sarà sicuramente Ottilia.


Ma questo gioco immaginato si rivelerà fallace. Ottilia arriva, richiamata da Carlotta, prende a vivere con la coppia e si dimostra una persona fuori del comune.
Le affinità prendono decisamente un altro corso e saranno Eduardo e Ottilia ad esser presi in un amore descritto da Goethe con tutti gli strumenti di quel romanticismo che non ha mai amato anche se, suo malgrado, ne fu uno dei massimi e precoci esponenti. Sarà questo amore che scompaginerà il precedente equilibrio “chimico”, visto che l'attrazione tra Carlotta e il capitano non avrà modo di evolvere.
La trama successiva (una sintesi qui), dalla partenza del capitano e poi di Eduardo, alla morte accidentale (per annegamento) del figlio di Eduardo e Carlotta che era stato affidato ad Ottilia, prende via via i toni della più cupa tragedia, fino al sacrificio finale, per rinuncia alla vita, di Ottilia; tutti i presagi intravisti sotto la superficie apparentemente levigata del romanzo (gli specchi d'acqua e il pericolo di affogare, una natura che si vorrebbe imbrigliare ma che non è mai ferma e muta, le feste preparate con cura che si rivelano insidiose e foriere di incidenti, bicchieri lanciati in aria che invece di spezzarsi vengono presi al volo) aprono le loro ali nere e svelano un  contenuto di morte. Costituiscono una sorta di materiale inerte che viene attivato solo quando l'azione di un determinato personaggio arriva in quel preciso punto di svolta. 

Le affinità elettive sono un romanzo complesso che va riletto forse più volte perché i rimandi e le allusioni interne (a parte quella alle affinità, apparentemente semplice) sono infinite e legate tra di loro, impossibili da cogliere la prima volta, anche perché la trama è avvincente. Pare che lo stesso Goethe abbia detto che nell'opera “c'è più di quanto chiunque possa scoprirvi a una sola lettura”.

Ecco come Walter Benjamin, il filosofo e critico letterario berlinese morto tragicamente nel 1940, che ha dedicato un saggio lucidissimo alle Affinità elettive, ci rivela i caratteri di questo plurimo registro.

Si narra che Goethe dava grande importanza al modo rapido e irresistibile in cui aveva fatto sopraggiungere la catastrofe. Nei tratti più segreti l'opera intera è intessuta di questo simbolismo [di morte]. Ma solo il sentimento a cui esso è familiare è in grado di accogliere senza sforzo il suo linguaggio, mentre alla visione oggettiva del lettore si presentano solo bellezze scelte. Solo in pochi passi Goethe ha dato anche ad essa un'inclinazione più precisa, e questi sono rimasti, nel complesso, i soli ad essere osservati. Essi si ricollegano tutti all'episodio del calice di cristallo, che, destinato a infrangersi, è raccolto al volo e rimane intatto. È il sacrificio della costruzione, che viene respinto all'atto della consacrazione della casa che è quella dove morirà Ottilia. Ma anche qui Goethe conserva il suo fare segreto, facendo nascere questo gesto dalla gioiosa euforia che esegue questo cerimoniale.
[…] Più tranquillamente, nel compleanno di Eduardo, la sua amica [Ottilia] consacra la cappella che sarà la loro futura tomba.”
(Walter Benjamin, “Le affinità elettive” in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962)


Goethe ritratto da Tischbein
Casa di Goethe - Frankfurt am Main
(Foto di Andrea Colasanti)
(Foto di Andrea Colasanti)






lunedì 13 agosto 2018


Elsa Morante

La storia ovvero uno scandalo che dura da duemila anni



Abbiamo scelto di terminare il brevissimo ciclo sulla Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza leggendo “La Storia” di Elsa Morante, pubblicato nel 1974. L'incontro per parlarne è stato il 10 gennaio.

Annamaria Ortese aveva un'autentica venerazione per Elsa Morante e poco dopo la pubblicazione del romanzo, il 16 maggio del 1975, le scrisse:

“... Un mese fa ho letto La Storia. Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana. Penso che una lode possa valere solo in questo caso. La stima che io ho di Lei, persona umana, è molto alta. Come scrittore, solo poche Sue pagine di scura bellezza mi erano note. Alla fine ho letto La Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana....
Non so di strutture e di altro. So di emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una letteratura, è passata la vita. E solo la vita - a umiliazione dei critici - è forma.”

La Storia è un libro poderoso e ambizioso, scandito da capitoli che per titolo hanno un anno, e ciascun capitolo inizia con un prologo, stampato in un corpo più piccolo, come quando nei manuali di storia o di letteratura si inserisce un approfondimento accessorio a quello del testo principale. Sono elenchi di fatti tra il resoconto giornalistico e la cronaca e il senso vero della loro presenza si comprende solo alla fine del libro. I fatti sono la Storia del titolo, quella in cui tutta l'umanità è stata partecipe, testimone e vittima durante la seconda guerra mondiale.

Primo Capitolo: “19..” (il primo e l'ultimo sono anni indefiniti). A volo di uccello si parte con le scoperte di inizio secolo, definito il “secolo atomico”, ma si segnala già che nulla è nuovo sotto il sole: “Anche il nuovo secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica: agli uni il potere agli altri la schiavitù”.
Segue una cronologia di sintesi della Prima Guerra Mondiale, delle premesse e della prima fase della Seconda.
A questo punto inizia la “Storia” del romanzo, di Ida Ramundo, di Ida e Ninnuzzo, di Ida e Useppe, di Ida come rappresentante degli umili, degli spaesati, degli oppressi. E inizia con uno stupro, il soldato Gunther violenta Ida, Ida rimane incinta e, di nascosto, da una levatrice presso San Giovanni in Laterano, darà alla luce Giuseppe, “Useppe”. Come il narratore onnisciente del romanzo classico, Morante torna indietro e ci racconta le origini della protagonista, che sembra aver conosciuto. Secondo molti (e molti di noi tra questi) è la parte più bella del libro: dei personaggi perfettamente connotati anche e soprattutto nei loro deliri (la madre di Ida, Nora Almagià, tiene segreta la sua origine ebraica, ed il timore di essere scoperta, covato tanto a lungo, si trasforma in un'ossessione fatale); un ambiente, quello bracciantile e quello piccolo borghese di una Calabria oppressa da “gerarchietti” locali, nel quale già si delinea l'impotenza di fronte alla prevaricazione, al quotidiano terrore scatenato dalle varie forme di follia mussoliniana.
Veniamo a sapere che Ida, a partire dai cinque anni, aveva iniziato a soffrire di epilessia. Nel descrivere a noi che leggiamo gli insulti del male in Ida, Morante ci dà già una chiave di lettura che lega la madre ad Useppe ed entrambi alla Storia: la malattia “veniva avvertita come una prova immane e senza colpa, la scelta inconsapevole di una creatura isolata che raccogliesse la tragedia collettiva”.
Ida sposa Alfio Mancuso, si trasferisce a Roma, a San Lorenzo, e fa la maestra (come i suoi genitori). Dopo quattro anni dal trasferimento a Roma nasce Nino, personaggio fondamentale, intelligente, irriverente, malandrino e soprattutto straordinariamente vitale. Il padre Alfio però muore presto.
Ida “avrà” come si è detto un figlio dal soldato Gunther, e lo chiamerà Giuseppe, come suo padre. Il bambino è minuscolo, per la malnutrizione, per essere stato tenuto fin dalla nascita nascosto in casa, in perenne debito di espansione vitale (quella di cui abbonda suo fratello), infine per il suo essere, per tutta la sua breve vita, un simbolo di ciò che dell'umano viene sovente trascurato: la tenerezza, la compassione, la mansuetudine.

Useppe, così il bambino chiama se stesso, ha un rapporto privilegiato con il fratello ma anche con un cane, Blitz, che muore sotto il bombardamento di San Lorenzo. Ecco: nel bombardamento di San Lorenzo, nel successivo sfollamento a Pietralata, nell'allucinato percorso di Ida dalle macerie del quartiere e poi, più tardi, nel fortuito incontro alla stazione del treno dei deportati a seguito del rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre, nella visita al Ghetto spopolato, arriva ciò che era preannunciato da tempo: il rullo compressore della Storia, i destini travolti dalla guerra, l'impotenza del singolo. La descrizione si fa ancora più prossima ai personaggi, quasi viscerale nel seguirne le vicende. A Pietralata un enorme capannone accoglie Ida e altri senzatetto: i memorabili “Mille”, gruppo cospicuo di sfollati napoletani che vivono in una promiscuità quasi bestiale ma che sono per Useppe fonte di meraviglia e umana simpatia. Qui entra in scena anche il personaggio forse più enigmatico del romanzo, Carlo Vivaldi, il cui nome è in realtà Davide Segre, anche lui partigiano, che ritroveremo più tardi.
I Mille se ne vanno e madre e figlio occupano da soli lo stanzone di Pietralata. Siamo alla fine del '43, vicini alla “soluzione finale”. Un'ordinanza riguardante i matrimoni misti mette Ida di fronte all'incubo di sua madre. Nino è andato partigiano, ma Useppe, anzi “Useppetto” il “piccolo paria senza razza, sottosviluppato, malnutrito, povero campione senza valore”, nel delirio neanche tanto delirante di Ida, è circondato da possibili carnefici. Inizia la bestiale lotta per il pane e Ida diventa ladra, nell'impossibile illusione di far crescere Useppe.
La guerra finisce ma nel mese di agosto del '45 vengono bombardate con l'atomica le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.

Comincia la pace, gli Ebrei tornano ma la Storia continua il suo corso cieco. Ninnarieddu rifiuta qualsiasi appartenenza politica e – dopo la lotta partigiana – decide di lottare ma solo per sé visto che “si sta sempre co' una scarpa e una ciavatta”. Con disperata protervia, rompe con i compagni, entra nel contrabbando e muore in un inseguimento della polizia in seguito a un furto. Ida non andrà al funerale, le risulterà impossibile credere che l'invulnerabilità del figlio, incolume dopo qualsiasi bravata, si sia infine spezzata. La sua fragilissima psiche deve fare i conti con le tante immagini del figlio che l'inconscio le propone quotidianamente, e con una frase che le ritorna ossessivamente “la colpa è tua, ma', la colpa è tua”. Come se il figlio le chiedesse ragione di averlo messo al mondo.

Intanto Useppe comincia ad andare a scuola e si comincia ad affacciare, inequivocabile, il male ereditato dalla madre, l'epilessia, le cui violente manifestazioni lasciano il suo debole fisico ogni volta più stremato.

Ma, proprio in questo punto del romanzo, quello che Cesare Garboli nell'introduzione dell'edizione Einaudi chiama il “punto di maggior depressione”, inizia la vera e propria epifania del romanzo: il Tevere, le sue rive da cui ci si può tuffare in un'acqua per niente infida, è il luogo incantato in cui Useppetto incontra pischelli che sembrano pirati, e poi alberi, insetti e uccelli con i quali parlare, capanne e radure. Un luogo in cui stare bene, nascondersi, godere del sole e dei giochi di Bella, il secondo cane che Useppe porta a spasso.
Ma gli insulti del male continuano, e Ida è sempre più sfinita dalla paura.
A questo punto c'è un lungo inserto che riguarda l'epilogo della vicenda di Davide Segre, il partigiano anarchico conosciuto a Pietralata, un personaggio forse autobiografico vittima in un certo senso di se stesso, di un rigore che non sa trovare uno sbocco nell'esistenza.
Davide muore, muoiono Useppe e muore Ida, che sopravvive nove anni, miserevolmente, al figlio. Ma, come il Panda minore della leggenda, di cui “si diceva che trascorresse dei millenni a pensare sul proprio albero: dal quale scendeva in terra ogni trecento anni. Ma in realtà, il calcolo di tali durate era relativo: difatti, nel mentre che in terra erano passali 300 anni, sull’albero di quel panda minore erano passati appena dieci minuti”, così – ci dice Morante alla fine del libro - Ida in realtà morì insieme al suo pischelletto Useppe e non nove anni dopo.

Alla sua uscita il libro suscitò un dibattito accesissimo, ci fu chi criticò aspramente l' assenza di speranza in un agire positivo dell'uomo implicita nella visione della Storia come Organizzazione Criminale che schiaccia e uccide soprattutto i deboli e gli inermi. Rossana Rossanda scrive per esempio: “L'ideologia del niente cambia e non ci resta che piangere non è moderna né progressiva. Chi lavora a una rivoluzione può liberarsi da tutte le rozze speranze fuorché una, che battersi è possibile”. I termini usati da Rossanda sono tuttavia più clementi di quelli di una lettera al Manifesto del 18 luglio 1974, in cui Balestrini, Silva, Rasy e Paolozzi, una stroncatura abbastanza feroce in cui si annovera Elsa Morante tra i nipotini di De Amicis e che definiva il libro una “scontata elegia della rassegnazione, un nuovo discorso delle beatitudini che l'ideologia della classe sfruttatrice trova del tutto funzionale al proprio attuale progetto economico.”
Si fa fatica oggi, dopo quarant'anni di eclisse delle rivoluzioni a ricostruire il clima e la passione politica in cui questi giudizi furono emessi ma – nei primi anni '70 – erano l'acqua in cui tutti, chi più chi meno, si era immersi...
Pasolini, che di Morante fu grande amico, scrisse in due riprese su “Tempo” una lunga recensione di cui si possono condividere molte cose. Come detto all'inizio, anzitutto la bellezza della prima parte (per Pasolini la sola bellissima); per il resto, secondo lo scrittore è un romanzo imperfetto, su cui Morante avrebbe dovuto lavorare di più (ci lavorò tre anni) ma che regge il confronto con i Karamazov. Non piace a Pasolini Useppe, che definisce “la vita esaltata in quanto tale”, celebrazione molto morantiana della joie de vivre dei poveri di spirito. Una critica molto forte è quella che riguarda il punto di vista: sarebbe stato meglio scegliere l'occhio di un personaggio ed evitare i tanti personaggi di maniera invece che affidarsi al “diligente e geniale ron-ron di Manierista Onnisciente”. È di maniera – secondo Pasolini – anche il pastiche tra filosofia (S. Paolo, Spinoza, induismo) e politica (anarchia) e l'ideologia decisa: La Vita è Bene e la Storia è Male.

In questo blog c'è la storia della vicenda critica e anche molti aspetti che qui si sono tralasciati.





martedì 17 luglio 2018

Fenoglio e Pavese

Beppe Fenoglio, Una questione privata



Questo blog va un po' a balzelloni: colpa degli impegni di noi tutti e della redattrice usuale soprattutto, ed è un po' difficile seguire il “senso” delle letture. Perché un senso c'è. Verso l'inizio dei nostri incontri avevamo scelto i premi Nobel, poi la scrittura femminile, poi il Mediterraneo e le sue voci; poi, durante l'autunno/inverno 2017-2018 abbiamo intrapreso, dopo “Il sentiero dei nidi di ragno”, una sorta di ciclo ideale sulla guerra e la Resistenza che partiva da “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, passava per “La casa in collina” di Pavese, per terminare con “La Storia” di Elsa Morante.
Neanche lontanamente è possibile dare conto di tutti gli intrecci, le idiosincrasie, gli agganci, i rimandi che ci sono venuti in mente tra questi libri e che abbiamo discusso nei nostri incontri e così iniziamo a fare un resoconto “minimo” dell'accoppiata Fenoglio/Pavese, rispettivamente discussi il 24 ottobre e il 24 novembre 2017, a un mese di distanza l'uno dall'altro
Diciamo anzitutto che Fenoglio ce lo ha in un certo senso “consegnato” Calvino.
Nell'introduzione al “Sentiero” infatti aveva scritto: “Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, Beppe Fenoglio, e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo e morì prima di vederlo pubblicato… Una questione privata … è costruito con la geometrica tensione di un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l'Orlando furioso, e nello stesso tempo c'è la Resistenza proprio com'era, …con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. … È al libro di Fenoglio che volevo fare la prefazione, non al mio.”

L'edizione Einaudi del 1986 contiene sia “Una questione privata” che “I ventitré giorni della città di Alba”. Il secondo, del 1952, è il primo libro pubblicato di Fenoglio mentre “Una questione privata” è uscito poco dopo la morte, nel 1963, così come postumo è il libro forse più famoso, anche per via della sperimentazione linguistica, “Il partigiano Johnny” comparso nel 1968 e che nelle intenzioni di Fenoglio doveva essere il cuore di una sorta di epopea della Resistenza.
Figlio di un macellaio di Alba, Amilcare, e di una donna che parlava unicamente il dialetto albese, forte e intelligente come il figlio, dopo la scuola dell'obbligo Beppe viene iscritto al liceo, dove nasce e si sviluppa la sua passione per la lingua inglese.
Entra nell'università nel '40 ma nel '43 viene richiamato alle armi, poco tempo prima dell'Otto settembre, e già nel gennaio del '44 entra nelle formazioni partigiane, prima con le Brigate Garibaldi, poi con i badogliani.
Sono gli anni in cui si situa la scena di entrambi i romanzi di Fenoglio ma, come abbiamo detto, entrambi sono stati pubblicati nel dopoguerra, con non poche polemiche della critica militante che stigmatizzava, dei Ventitré giorni, il tono beffardo e irriverente e, della Questione, il tono intimistico, esistenzialistico, e – appunto – privato.

Sicuramente Vittorini, con cui condivideva l'interesse per la lingua inglese, e Calvino, conosciuti quasi in contemporanea, furono determinanti per la sua affermazione visto che lo stimarono e lo incitarono alla scrittura e alla pubblicazione. Ma ancor più determinante fu il generale interesse verso un tipo di scrittura che dagli Stati Uniti mostrava come si potesse “ procedere ad orecchio della vita e non a riflessione sulla vita” (Vittorini). Vittorini, Pavese e Fenoglio – al di là delle numerose differenze - sono accomunati dalla ricerca di una prosa quanto più possibile aderente alla realtà, anche se diverse sono le declinazioni della “realtà”.

Breve sunto tratto dal sito www.centrostudibeppefenoglio.it:

Il romanzo, incompiuto, narra la vicenda del partigiano Milton, un giovane studente universitario che, durante un’azione nelle vicinanze di Alba, rivede la villa sulla collina dove era sfollata Fulvia, una ricca ragazza torinese, incontrata quasi due anni prima.
Milton ama Fulvia, ormai lontana: ricorda i momenti trascorsi insieme, le letture e la musica che hanno ascoltato; ma la villa, ora, è immersa in un’atmosfera di spettrale abbandono.
La custode, in un breve colloquio, rivela al giovane gli incontri avvenuti tra Fulvia e Giorgio Clerici, un comune amico. Il racconto suscita nell’animo di Milton un’angoscia profonda; e l’amore per Fulvia, l’amicizia per Giorgio, la gelosia, si fondono in un’unica passione ossessiva: il desiderio di conoscere la verità.
I temi fondamentali di questa storia romantica sono l’amore e la Resistenza; ma il tragico turbamento individuale prevale sulle vicende politiche.
Milton vuole incontrare Giorgio: comincia, quindi, la sua ricerca affannosa, in un paesaggio divenuto ostile per la presenza avvolgente di una fitta nebbia.
Giorgio Clerici è stato catturato dai fascisti e condotto ad Alba.
Milton organizza uno scambio: sequestra un sergente fascista, ma è obbligato ad ucciderlo, perché il prigioniero tenta di fuggire.
Il sospetto del tradimento di Fulvia e l’ansia di conoscere la verità non abbandonano il protagonista del romanzo: Milton decide di ritornare nella villa; ma incontra una colonna fascista che lo costringe ad una fuga quasi interminabile, ai limiti della resistenza umana.
L’eroe solitario, ormai estraneo alla realtà che lo circonda, corre fra il cielo e la terra; poi, crolla sotto gli alberi di un bosco che, protettivo, lo accoglie.


Questa la trama. Muore Milton? Si salva? “Gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò diritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”. I fratelli Taviani, che hanno tratto un film dal libro, preferiscono lasciare aperta la vicenda del protagonista: quel che è certo è che la caduta è la fine del deragliamento emotivo del protagonista e dunque è la fine del libro, inteso come ricerca forsennata e impossibile della verità.

Nel gruppo c'è stato un accordo fondamentale su quello che il libro lascia dopo la lettura. Non solo il senso del “furore” ariostesco di questo continuo andare, sprofondare nel fango, uccidere quasi per caso, ma anche la fisicità del paesaggio: sembra di toccare quella nebbia che oscura la vista, di sentire l'odore del cibo impervio che si cucina nei rifugi di fortuna. E, per contro, l'atmosfera rarefatta, intellettuale, o meglio cerebrale, della relazione con Fulvia prima del precipitare della storia. “Over the rainbow”, che ossessivamente girava nel grammofono della casa prima abitata poi deserta di Fulvia, è la colonna sonora di questa sorta di mancata storia d'amore, arcobaleno che annega nei tonfi, negli sprofondamenti e nel bianco e nero dello scenario in cui si muove il partigiano badogliano Milton, alter ego di Fenoglio: “Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano e la qualifica di scrittore e partigiano. Mi pare d’aver fatto meglio questo che quello”.




Cesare Pavese – La casa in collina




Fenoglio muore per malattia a 41 anni, Pavese si toglie la vita a 42. Uomini giovani, per i parametri di oggi, già maturi per gli anni '50, quando la loro generazione si rimetteva in piedi dopo la guerra civile.
Entrambi originari delle Langhe, terra di poche parole e di ottimi vini (ma Pavese detestava il vino rosso), a giudicare dai ricordi di coloro che li hanno conosciuti, sembra che avessero personalità per parecchi versi simili, in cui un altissimo rigore intellettuale e morale si associava a un riserbo e a una ritrosia molto accentuati e, in Pavese, a una estrema vulnerabilità.

Si è spesso detto, a ragione, che Fenoglio abbia voluto, più che fare un affresco della Resistenza, dare conto dell'eterna lotta tra bene e male, come si ritrova nella poesia epica e come si trova nella amata letteratura inglese (Milton, nome di battaglia del protagonista de “Una questione privata”, è l'autore del Paradise lost). E c'è chi ipotizza, altrettanto a ragione, come la scelta della letteratura inglese rispetto a quella americana sia stata determinata dal bisogno di Fenoglio di distanziarsi dall'ombra ingombrante del “conterraneo” Pavese, affermato scrittore, che già nel 1932 si era cimentato con la traduzione del Moby Dick di Melville e che si era laureato con una tesi su Walt Whitman.

Di Pavese abbiamo scelto “La casa in collina” proprio perché è l'altro punto di vista rispetto alla guerra partigiana, quello di chi sceglie di non parteciparvi in prima persona.
Fu pubblicato nel 1949, insieme a “Il carcere” che però risale al 1938-39, parte di una trilogia che include anche “Il compagno”, pubblicato nel 1947.

Anche qui, come in “Una questione privata”, siamo intorno all'8 settembre 1943, immersi nella guerra civile.
Il racconto è in prima persona e certamente nei tratti del protagonista Corrado è riconoscibile Cesare, che rimane in città a svolgere il suo lavoro di professore, sale in collina la sera e dorme in una casa che gli offrono due donne, Elvira e sua madre: la casa in collina del titolo. Ha con sé il cane Belbo. Nei pressi c'è un'osteria in cui sta un partigiano di nome Fonso e altri, tra cui Cate, una donna con cui Corrado ha avuto una tormentata e amara storia d'amore a Torino, tempo prima. Cate ha con sé il figlio, che si chiama Dino. Corrado pensa sia suo figlio e si lega moltissimo a lui.
Corrado è antifascista ma sconta un'apatia che sconfina nella vigliaccheria, un tratto di sé che non gli piace ma che lo connota in profondità e origina dal profondo dissidio di un antifascismo che non sa farsi pratico.

Tu, che dici? Che cosa faresti – chiese Cate, seria.
Tacquero tutti, e mi guardavano.
Ammazzare, – dissi – levargli la voglia. Continuare la guerra qui in casa. […]-
Tu lo faresti? – disse Cate.
No, – risposi. – Ci sono negato.

Corrado è negato alla guerra; la guerra, spiega nelle prime pagine, è una sorta di tana in cui si è raccolto il sordo rancore con cui si è conclusa la gioventù. Un giorno, tornando in collina dalla città, assiste non visto all'arresto di Cate e degli altri da parte dei nazisti. Scappa e si rifugia a Chieri, in un collegio di preti, dove poco dopo lo raggiunge Dino. Ma non si sente al sicuro neanche lì e fugge di nuovo. A quel punto inizia una sorta di angosciato vagabondaggio per le colline; perde la strada (non è più il cammino consueto e tranquillizzante che lo portava, la sera, alla casa in collina: cerca la strada di casa dei suoi genitori ma non la riconosce più), assiste a un'imboscata di partigiani che ammazzano dei tedeschi. L'imboscata non è descritta, sono descritti solo, in modo indimenticabile, i morti ammazzati.
Il libro finisce con la guerra ancora in atto. Corrado, nell'ultimo capitolo che riassume tutte le sue riflessioni politiche, esistenziali e di relazione tra gli uomini e le donne, tra gli uomini e i propri nemici, fa alcune considerazioni, quasi una meditazione sulla morte. E lo fa con le frasi dall'andamento musicale cui ci ha abituato in tutto il breve testo, tipiche anche delle sue poesie; frasi “vere” in tutti i sensi possibili e che, una volta lette, non si dimenticano più. Parafrasando una frase della poesia “Ulisse”1:

Cesare ha un suo modo di parlare della guerra che, chi l'ha fatta, sa che può sentirlo compagno.

Ecco alcuni estratti del XXIII e ultimo capitolo:

“Ma ho visto i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante … Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.
Ci sono dei giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi... Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

1 Il ragazzo ha un suo modo di uscire di casa che, chi resta, s'accorge di non farci più nulla.