lunedì 13 agosto 2018


Elsa Morante

La storia ovvero uno scandalo che dura da duemila anni



Abbiamo scelto di terminare il brevissimo ciclo sulla Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza leggendo “La Storia” di Elsa Morante, pubblicato nel 1974. L'incontro per parlarne è stato il 10 gennaio.

Annamaria Ortese aveva un'autentica venerazione per Elsa Morante e poco dopo la pubblicazione del romanzo, il 16 maggio del 1975, le scrisse:

“... Un mese fa ho letto La Storia. Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana. Penso che una lode possa valere solo in questo caso. La stima che io ho di Lei, persona umana, è molto alta. Come scrittore, solo poche Sue pagine di scura bellezza mi erano note. Alla fine ho letto La Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana....
Non so di strutture e di altro. So di emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una letteratura, è passata la vita. E solo la vita - a umiliazione dei critici - è forma.”

La Storia è un libro poderoso e ambizioso, scandito da capitoli che per titolo hanno un anno, e ciascun capitolo inizia con un prologo, stampato in un corpo più piccolo, come quando nei manuali di storia o di letteratura si inserisce un approfondimento accessorio a quello del testo principale. Sono elenchi di fatti tra il resoconto giornalistico e la cronaca e il senso vero della loro presenza si comprende solo alla fine del libro. I fatti sono la Storia del titolo, quella in cui tutta l'umanità è stata partecipe, testimone e vittima durante la seconda guerra mondiale.

Primo Capitolo: “19..” (il primo e l'ultimo sono anni indefiniti). A volo di uccello si parte con le scoperte di inizio secolo, definito il “secolo atomico”, ma si segnala già che nulla è nuovo sotto il sole: “Anche il nuovo secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica: agli uni il potere agli altri la schiavitù”.
Segue una cronologia di sintesi della Prima Guerra Mondiale, delle premesse e della prima fase della Seconda.
A questo punto inizia la “Storia” del romanzo, di Ida Ramundo, di Ida e Ninnuzzo, di Ida e Useppe, di Ida come rappresentante degli umili, degli spaesati, degli oppressi. E inizia con uno stupro, il soldato Gunther violenta Ida, Ida rimane incinta e, di nascosto, da una levatrice presso San Giovanni in Laterano, darà alla luce Giuseppe, “Useppe”. Come il narratore onnisciente del romanzo classico, Morante torna indietro e ci racconta le origini della protagonista, che sembra aver conosciuto. Secondo molti (e molti di noi tra questi) è la parte più bella del libro: dei personaggi perfettamente connotati anche e soprattutto nei loro deliri (la madre di Ida, Nora Almagià, tiene segreta la sua origine ebraica, ed il timore di essere scoperta, covato tanto a lungo, si trasforma in un'ossessione fatale); un ambiente, quello bracciantile e quello piccolo borghese di una Calabria oppressa da “gerarchietti” locali, nel quale già si delinea l'impotenza di fronte alla prevaricazione, al quotidiano terrore scatenato dalle varie forme di follia mussoliniana.
Veniamo a sapere che Ida, a partire dai cinque anni, aveva iniziato a soffrire di epilessia. Nel descrivere a noi che leggiamo gli insulti del male in Ida, Morante ci dà già una chiave di lettura che lega la madre ad Useppe ed entrambi alla Storia: la malattia “veniva avvertita come una prova immane e senza colpa, la scelta inconsapevole di una creatura isolata che raccogliesse la tragedia collettiva”.
Ida sposa Alfio Mancuso, si trasferisce a Roma, a San Lorenzo, e fa la maestra (come i suoi genitori). Dopo quattro anni dal trasferimento a Roma nasce Nino, personaggio fondamentale, intelligente, irriverente, malandrino e soprattutto straordinariamente vitale. Il padre Alfio però muore presto.
Ida “avrà” come si è detto un figlio dal soldato Gunther, e lo chiamerà Giuseppe, come suo padre. Il bambino è minuscolo, per la malnutrizione, per essere stato tenuto fin dalla nascita nascosto in casa, in perenne debito di espansione vitale (quella di cui abbonda suo fratello), infine per il suo essere, per tutta la sua breve vita, un simbolo di ciò che dell'umano viene sovente trascurato: la tenerezza, la compassione, la mansuetudine.

Useppe, così il bambino chiama se stesso, ha un rapporto privilegiato con il fratello ma anche con un cane, Blitz, che muore sotto il bombardamento di San Lorenzo. Ecco: nel bombardamento di San Lorenzo, nel successivo sfollamento a Pietralata, nell'allucinato percorso di Ida dalle macerie del quartiere e poi, più tardi, nel fortuito incontro alla stazione del treno dei deportati a seguito del rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre, nella visita al Ghetto spopolato, arriva ciò che era preannunciato da tempo: il rullo compressore della Storia, i destini travolti dalla guerra, l'impotenza del singolo. La descrizione si fa ancora più prossima ai personaggi, quasi viscerale nel seguirne le vicende. A Pietralata un enorme capannone accoglie Ida e altri senzatetto: i memorabili “Mille”, gruppo cospicuo di sfollati napoletani che vivono in una promiscuità quasi bestiale ma che sono per Useppe fonte di meraviglia e umana simpatia. Qui entra in scena anche il personaggio forse più enigmatico del romanzo, Carlo Vivaldi, il cui nome è in realtà Davide Segre, anche lui partigiano, che ritroveremo più tardi.
I Mille se ne vanno e madre e figlio occupano da soli lo stanzone di Pietralata. Siamo alla fine del '43, vicini alla “soluzione finale”. Un'ordinanza riguardante i matrimoni misti mette Ida di fronte all'incubo di sua madre. Nino è andato partigiano, ma Useppe, anzi “Useppetto” il “piccolo paria senza razza, sottosviluppato, malnutrito, povero campione senza valore”, nel delirio neanche tanto delirante di Ida, è circondato da possibili carnefici. Inizia la bestiale lotta per il pane e Ida diventa ladra, nell'impossibile illusione di far crescere Useppe.
La guerra finisce ma nel mese di agosto del '45 vengono bombardate con l'atomica le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.

Comincia la pace, gli Ebrei tornano ma la Storia continua il suo corso cieco. Ninnarieddu rifiuta qualsiasi appartenenza politica e – dopo la lotta partigiana – decide di lottare ma solo per sé visto che “si sta sempre co' una scarpa e una ciavatta”. Con disperata protervia, rompe con i compagni, entra nel contrabbando e muore in un inseguimento della polizia in seguito a un furto. Ida non andrà al funerale, le risulterà impossibile credere che l'invulnerabilità del figlio, incolume dopo qualsiasi bravata, si sia infine spezzata. La sua fragilissima psiche deve fare i conti con le tante immagini del figlio che l'inconscio le propone quotidianamente, e con una frase che le ritorna ossessivamente “la colpa è tua, ma', la colpa è tua”. Come se il figlio le chiedesse ragione di averlo messo al mondo.

Intanto Useppe comincia ad andare a scuola e si comincia ad affacciare, inequivocabile, il male ereditato dalla madre, l'epilessia, le cui violente manifestazioni lasciano il suo debole fisico ogni volta più stremato.

Ma, proprio in questo punto del romanzo, quello che Cesare Garboli nell'introduzione dell'edizione Einaudi chiama il “punto di maggior depressione”, inizia la vera e propria epifania del romanzo: il Tevere, le sue rive da cui ci si può tuffare in un'acqua per niente infida, è il luogo incantato in cui Useppetto incontra pischelli che sembrano pirati, e poi alberi, insetti e uccelli con i quali parlare, capanne e radure. Un luogo in cui stare bene, nascondersi, godere del sole e dei giochi di Bella, il secondo cane che Useppe porta a spasso.
Ma gli insulti del male continuano, e Ida è sempre più sfinita dalla paura.
A questo punto c'è un lungo inserto che riguarda l'epilogo della vicenda di Davide Segre, il partigiano anarchico conosciuto a Pietralata, un personaggio forse autobiografico vittima in un certo senso di se stesso, di un rigore che non sa trovare uno sbocco nell'esistenza.
Davide muore, muoiono Useppe e muore Ida, che sopravvive nove anni, miserevolmente, al figlio. Ma, come il Panda minore della leggenda, di cui “si diceva che trascorresse dei millenni a pensare sul proprio albero: dal quale scendeva in terra ogni trecento anni. Ma in realtà, il calcolo di tali durate era relativo: difatti, nel mentre che in terra erano passali 300 anni, sull’albero di quel panda minore erano passati appena dieci minuti”, così – ci dice Morante alla fine del libro - Ida in realtà morì insieme al suo pischelletto Useppe e non nove anni dopo.

Alla sua uscita il libro suscitò un dibattito accesissimo, ci fu chi criticò aspramente l' assenza di speranza in un agire positivo dell'uomo implicita nella visione della Storia come Organizzazione Criminale che schiaccia e uccide soprattutto i deboli e gli inermi. Rossana Rossanda scrive per esempio: “L'ideologia del niente cambia e non ci resta che piangere non è moderna né progressiva. Chi lavora a una rivoluzione può liberarsi da tutte le rozze speranze fuorché una, che battersi è possibile”. I termini usati da Rossanda sono tuttavia più clementi di quelli di una lettera al Manifesto del 18 luglio 1974, in cui Balestrini, Silva, Rasy e Paolozzi, una stroncatura abbastanza feroce in cui si annovera Elsa Morante tra i nipotini di De Amicis e che definiva il libro una “scontata elegia della rassegnazione, un nuovo discorso delle beatitudini che l'ideologia della classe sfruttatrice trova del tutto funzionale al proprio attuale progetto economico.”
Si fa fatica oggi, dopo quarant'anni di eclisse delle rivoluzioni a ricostruire il clima e la passione politica in cui questi giudizi furono emessi ma – nei primi anni '70 – erano l'acqua in cui tutti, chi più chi meno, si era immersi...
Pasolini, che di Morante fu grande amico, scrisse in due riprese su “Tempo” una lunga recensione di cui si possono condividere molte cose. Come detto all'inizio, anzitutto la bellezza della prima parte (per Pasolini la sola bellissima); per il resto, secondo lo scrittore è un romanzo imperfetto, su cui Morante avrebbe dovuto lavorare di più (ci lavorò tre anni) ma che regge il confronto con i Karamazov. Non piace a Pasolini Useppe, che definisce “la vita esaltata in quanto tale”, celebrazione molto morantiana della joie de vivre dei poveri di spirito. Una critica molto forte è quella che riguarda il punto di vista: sarebbe stato meglio scegliere l'occhio di un personaggio ed evitare i tanti personaggi di maniera invece che affidarsi al “diligente e geniale ron-ron di Manierista Onnisciente”. È di maniera – secondo Pasolini – anche il pastiche tra filosofia (S. Paolo, Spinoza, induismo) e politica (anarchia) e l'ideologia decisa: La Vita è Bene e la Storia è Male.

In questo blog c'è la storia della vicenda critica e anche molti aspetti che qui si sono tralasciati.