martedì 27 dicembre 2016

Fiesta (ovvero lo zio Ernest)

Ecco un post a cura di Andrea Colasanti, conoscitore e amante dello zio Ernest....


Martedì 22 novembre si è svolta la discussione su “Fiesta” primo libro di Ernest Hemingway, in un clima poco parigino e non troppo toreador con l’eccezione di un paio di bottiglie di vino rosso e un Fundador. Sul tavolo facevano bella mostra di sé alcune vecchie versioni di “Fiesta”, segno che il libro ha segnato più la fase giovanile di alcuni partecipanti al convivio che quella attuale.
Appare subito chiaro che non tutti hanno finito il libro, trovando forse la storia poco coinvolgente.
Eppure Hemingway, Nobel nel 1954, è stato un faro per due generazioni di scrittori americani e “Fiesta” un romanzo di formazione per generazioni di ventenni.
Ernest Miller Hemingway (Oak Park, 21 luglio 1899 – Ketchum, 2 luglio 1961) è stato scrittore e giornalista statunitense. Condusse una vita turbolenta, fece parte della comunità di espatriati americani a Parigi durante gli anni venti, si sposò quattro volte. Ricevette il Premio Pulitzer nel 1953 per “Il vecchio e il mare”, e vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Lo stile letterario di Hemingway, ebbe una significativa influenza sullo sviluppo del Romanzo americano del XX secolo. Molte delle sue opere sono considerate pietre miliari della letteratura americana.
I suoi romanzi, in ordine cronologico, sono:

1926 - The Sun Also Rises (Fiesta: Il sole sorgerà ancora)
1929 - A Farewell to Arms (Addio alle armi)
1932 - Death in the Afternoon (Morte nel pomeriggio)
1935 - The Green Hills of Africa (Verdi colline d'Africa)
1937 - To Have and Have Not (Avere e non avere)
1940 - For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana)
1950 - Across the River and Into the Trees (Di là dal fiume e tra gli alberi)
1952 - The Old Man and the Sea (Il vecchio e il mare)

Hemingway ebbe una vita avventurosa: ragazzo del ’99 volontario in Italia durante la prima guerra mondiale, ferito e decorato; volontario nella guerra civile spagnola; sbarcato in Normandia come giornalista al seguito delle truppe americane; amico di Fidel Castro; gran viaggiatore; gran bevitore; boxeur dilettante; appassionato di caccia e pesca; allevatore di gatti; padrino di noti cocktail cubani. Ha distribuito tutto questo nei suoi romanzi.
Ha terminato la sua vita a 62 anni sparandosi con il suo fucile da caccia.

Nel 1926, a 27 anni, pubblica il suo primo romanzo, scritto in 48 giorni: “The sun also rises” (“Fiesta”) ispirato ad avvenimenti realmente accaduti durante una estate passata a Pamplona con alcuni amici e una lady inglese in attesa di divorzio. La trama è abbastanza semplice ed i dialoghi molto serrati. In estrema sintesi, è la storia di un Amore Impossibile, ben condito da grandi bevute, viaggi, scazzottate, corride e pesca alla trota. Tutto il libro si può racchiudere nell’ultimo magistrale dialogo tra i due protagonisti principali: Jake, giornalista americano a Parigi, reso impotente da una ferita di guerra, e Brett, affascinante e spregiudicata Lady inglese, oggetto di desiderio e di contrasto all’interno del gruppo.
"Oh, Jake" disse Brett. "Noi due saremmo stati bene assieme."
Di fronte a noi su una pedana, un poliziotto in kaki dirigeva il traffico. Alzò la sua mazza. La macchina improvvisamente rallentò, spingendo Brett contro di me.
"Già" dissi io, "non è bello pensare così?"
(votata come numero 1 “Famous Last Words: Our 20 Favorite Final Lines in Literature”: Best pessimistic diagnosis of a resigned and wistful generation)

TRAMA
Jake è un giornalista americano corrispondente da Parigi per l’Herald Tribune, ferito, nel corpo e nel morale, durante la prima guerra mondiale. A Parigi frequenta un gruppo di nullafacenti sbevazzoni che conduce una vita inutile e dispendiosa, girovagando per locali notturni (gli americani sfuggivano così gli orrori della guerra e del proibizionismo imperante negli States). Polo di attrazione di questo gruppo è Lady Brett, una bella e disinibita donna inglese che turba gli animi e gli ormoni della maggior parte degli uomini della compagnia. Questa atmosfera sarà immortalata dall’appellativo di “Lost Generation”, affibbiato da Gertrude Stein e poi descritto dallo stesso Hemingway nel romanzo postumo “Festa Mobile”.
Il gruppetto decide di recarsi a Pamplona per vedere le corride organizzate durante la Fiesta di San Firmino (7 luglio), al seguito di Jake, vero Aficionado delle corride. Prima di arrivare a Pamplona, Jake si concede alcuni rilassanti giorni di pesca in compagnia dell’amico Bill mentre Robert Cohn e Brett passano una notte insieme, rovinando per sempre la vita del giovane ebreo e contribuendo ad incrinare l’umore del gruppo per il resto del libro.
L’atmosfera dell’Encierro e gli alcolici bevuti a profusione scaldano rapidamente gli animi del nostro gruppo di amici e i dialoghi si fanno sempre più fitti e spigolosi per culminare in insulti nervosi e virili scazzottate.
Durante una corrida Brett ha un colpo di fulmine per Romero, un giovane e tenebroso torero che la omaggerà con le orecchie dei tori da lui uccisi. La relazione tra i due susciterà l’indignazione degli Aficionados spagnoli che inorridiscono alla vista della perdizione del giovane e promettente toreador.
Finita la Fiesta il gruppo si sfalda. Brett scappa con il torero, Jake torna verso la Francia con Bill e Mike, il fidanzato di Brett, ma i tre si dividono al confine tra Spagna e Francia. Jake si gode ancora qualche giorno di vacanza solitaria al mare quando riceve un telegramma di Brett da Madrid che chiedeva il suo aiuto. Jake corre da lei e la trova in un piccolo hotel, sola e in lacrime. Ha capito che doveva lasciar andare Romero, per il bene del ragazzo, e tornare da Mike. I due protagonisti se ne vanno in taxi per Madrid condividendo la tristezza per una vita che non è stata.

INNOVAZIONI E TEMI TRATTATI
La trama apparentemente semplice sottende in realtà molte tematiche più o meno esplicite.
Gli americani che iniziano a fare veramente gli Americani, ovvero a sentirsi liberi, ricchi e superiori nella vecchia Europa più che a casa loro. La Guerra, vista attraverso la sventura personale del protagonista. La pesca, la natura, la corrida, elementi, insieme alla caccia, che ritornano spesso in quasi tutti i libri di Hemingway. L’antisemitismo latente: il personaggio Robert Cohn viene sempre etichettato “Jew” ed è sempre il più escluso dal gruppo ed il meno coinvolto nella Fiesta. Il personaggio femminile per la prima volta così disinibito: divorziata, beve, fuma, sceglie e cambia uomini a suo piacimento e gli uomini si azzuffano per lei. Ma è al tempo stesso fragile, triste ed insoddisfatta. (NdR: Grazia Deledda riceveva il premio Nobel nel 1926, anno di pubblicazione di Fiesta. Qualche differenza tra i personaggi femminili??).
Nel libro serpeggia anche una morale che spinge a provare tristezza per queste persone infelici, sbronze, inconcludenti e litigiose. Jake, il protagonista, sembra essere l’unico personaggio con delle regole “morali”: ha un lavoro regolare, si lascia andare meno degli altri alle ubriacature, è più indulgente e tollerante degli altri. Anche Lady Brett alla fine si dimostra meno egoista e spregiudicata di quello che lasciava apparire e i suoi dialoghi più intimi con Jake lasciano trasparire sensibilità e fragilità.
Le varie traduzioni italiane sono decisamente datate ed attutiscono il ritmo breve, secco e veloce tipico di Hemingway.

Ecco le nostre edizioni, dopo cena

Deviazione oltreoceano: “L'Urlo e il Furore” di William Faulkner



Per dare finalmente spazio all'esigenza molto sentita nel gruppo, almeno da una parte di esso, di fare un'incursione di più titoli nella letteratura americana, abbiamo iniziato da Faulkner, rendendoci immediatamente conto che ci eravamo imbattuti in un altro Nobel (sarà una maledizione?), ricevuto dallo scrittore nel 1949 con questa motivazione: Per il suo potente e artisticamente unico contributo al romanzo moderno americano”

Come ricorda Attilio Bertolucci nella postfazione dell'edizione Einaudi, nel 1929 uscivano sia “Addio alle armi” di Ernest Hemingway (che il premio lo riceverà nel 1954) sia “L'Urlo e il Furore” di Faulkner. Ma i rispettivi autori stavano prendendo strade diverse:
mentre il primo si attarda a gustare aperitivi sulle terrasses della Riva Sinistra parigina […] sotto l'ala protettrice, la tutela un po' ironica, dell'esule americana volontaria Gertrude Stein, l'altro torna nel Sud natio a verificare la lezione dei moderni, soprattutto quella di James Joyce, sulla realtà della piccola patria nobile e degradata dalla quale finirà per non distaccarsi più”.
W.Faulkner, L'urlo e il furore, p. 313

La storia si svolge nella contea di Yoknapatawpha: una regione immaginaria, ma che può essere situata nel Mississipi, stato in cui Faulkner è nato, nel 1897, nella contea reale di New Albany.


Il romanzo si compone di quattro capitoli il titolo di ciascuno dei quali è una data. Diamo un'occhiata:

Sette aprile 1928
Due giugno 1910
Sei aprile 1928
Otto aprile 1928

Sembrerebbe una storia in tre giorni con un lontano flashback. Sì e no. Già nel primo capitolo, quando a parlare è Benjamin, un membro della famiglia Compson, il racconto è fitto di flashback che rimontano ad un passato lontano, alla fine dell''800 quando, con suo padre Jason, appartenente alla quarta generazione da quella del capostipite Quentin Compson, giunto in Mississipi dalla Scozia alla fine del '700, inizia la lunga, inarrestabile decadenza della famiglia. 
Famiglia formata da personaggi con lo stesso nome: si stenta per esempio a riconoscere in Quentin una ragazza, ma poi si capisce che le è stato dato il nome dello zio morto suicida, morbosamente legato alla sorella Caddy, madre appunto di Quentin e sorella anche di Benjamin e di Jason.
La famiglia Compson per Faulkner rappresenta la disintegrazione dell'Old South, degli Stati Uniti del Sud prima della Guerra Civile, quando le spinte alla modernità affogano nella palude dei rapporti morbosi, dell'emotività malata e autodistruttiva di tutti i personaggi, pur diversissimi tra loro. Sono le loro voci a parlare, a partire da Benjamin e con l'esclusione di Caddy che non partecipa al racconto, ma la cui prepotente sessualità e soprattutto la fortissima spinta alla trasgressione è la pietra d'inciampo su cui rotolano tutti gli altri personaggi, oltre se stessa. È il piano inclinato verso la rovina di tutti e di ciascuno e per qualcuno si sostanzierà in una meschina attitudine al ricatto economico e alla prepotenza (Jason), per qualcun'altro in una esistenza disperata e un'altrettanto disperata fine (Quentin, zio di Quentin-ragazza, figlia di Caddy, che ha tratti caratteriali presi dalla madre e dallo zio), per altri in una inarginabile e allucinata ipocondria (la madre Catherine). L'unica voce narrante che non è parte della famiglia, ma che è “con” la famiglia da sempre, è la governante di colore Dilsey, l'unico essere umano che fa da argine alla distruzione, e il cui nipote, Luster, è l'unico che riesce ad accudire nel modo migliore perché istintivo e senza sovrastrutture l' “idiota” Benjamin. È di Dilsey, comprensibilmente, l'ultima voce di questa labirintica, faticosa, terribilmente affascinante epopea del fallimento.

È cosa risaputa ma è bene ricordarla, il titolo viene da una citazione del Macbeth:

Life's but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.


Per un (impossibile) riassunto nonché per alcuni spunti di riflessione rimandiamo a questo interessante contributo:



domenica 25 dicembre 2016

Il mare non bagna la Foresta Vergine

Note sulla lettura di "Ferito a morte" di Raffaele La Capria e "Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortese


La curatrice di questo blog non è riuscita a dare conto di ben tre incontri che si sono succeduti dall'estate 2016 al dicembre di questo stesso anno.
Cerca ora di rimediare.

Dopo l'estate ci siamo visti per parlare di “Ferito a morte” di Raffaele La Capria e de “Il mare non bagna Napoli” di Annamaria Ortese. Il grado di separazione con la lettura precedente era molto diretto: Camus ci aveva lanciato un richiamo mediterraneo dall'Algeria, e noi lo abbiamo ripreso in Italia, a Napoli.

Si può dire che il romanzo di La Capria (Napoli, 1922) comincia in mare perché nella prima scena il protagonista Massimo, appisolato nel soggiorno di casa sua, sta sognando di inseguire una spigola sott'acqua. Deve tirare sulla spigola, ma manca l'azione e la spigola si rintana in qualche anfratto. La spigola ha un nome, si chiama Occasione Mancata ed è il simbolo di tutto quello che Massimo non riesce a fare, o per una sua “pigrizia maledetta” o per l'abbraccio asfissiante della “Foresta Vergine”, nome che lui dà a Napoli, immagine-simbolo della sua prepotente bellezza e della sua impenetrabilità, della sua terribile “naturalità”.
Quasi in dormiveglia, Massimo inizia a raccontare e da questo momento in poi siamo costretti – pena la non comprensione di ciò che leggiamo - a sintonizzarci con un flusso di coscienza fatto di rapide immagini, rapidi accenni a persone con nome e cognome, caratterizzate in modo fulmineo, cui si attacca – come le patelle allo scoglio – qualche considerazione più profonda. Il racconto è costruito su flash back di tipo particolare: La Capria non ti avverte che il Massimo che parla ora è quello del ricordo, ci devi arrivare lasciandoti andare, e il “flusso” dei “quasi-pensieri” è veramente acquatico. Anzitutto nella descrizione della cosiddetta “bella giornata” che apparentemente non è altro che una giornata di sole al mare, ma che in realtà si annuncia come il miracolo di una giornata perfetta, colta in “un'esagerazione di luce” con l'acqua che è “una meraviglia”, un tempo perfetto in cui si è integri e soprattutto si è padroni di sé, delle proprie relazioni, delle proprie aspettative.
Un'illusione dunque, che sfuma ogni volta che la giornata finisce ma che comunica anche a noi che leggiamo un residuo di bellezza ineffabile che si sedimenta e che rende difficile pensarsi felici altrove. Sì perché Massimo sta per partire ma non si decide. Un amico, Gaetano, che ha già fatto la scelta, gli scrive lettere per spronarlo. Ma Gaetano, che “neanche nuotare sa”, potrebbe mai capire che ciò che trattiene Massimo è “ritrovare uno solo di quei giorni intatto com'era, ritrovare una mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza – e rimettere tutto a posto da quel punto” ?
Massimo vive in Palazzo Medina (sappiamo che è il Palazzo Donn'Anna, realmente abitato da La Capria con la famiglia), un palazzo che per via di quella Natura che a Napoli ha sempre la meglio sulla Storia, e che qui ha il nome di bradisismo, lentamente è affondato in acqua. Lo guarda e non può fare a meno di pensare, visto che il palazzo la città non la può lasciare, che entro alcuni secoli, forse proprio in una bella giornata, il palazzo sprofonderà e i pesci nuoteranno nelle stanze irriconoscibili per le incrostazioni marine. “Solo questione di tempo”.
Nella seconda parte (gli ultimi tre capitoli) Massimo, che già si è trasferito a Roma, torna in vacanza a casa, incontra di nuovo i suoi amici. Sono passati pochi anni ma hanno lasciato il segno. Sasà, l'irresistibile Sasà, vive di espedienti, come ha sempre fatto del resto, ma la sua figura non ha più l'alone dorato di quand'era giovane. Ogni tanto anche lui sale a Roma, l'inverno a Napoli è insopportabile, a lui ci vuole l'estate. Ma altro che estate ci vuole per Napoli: la città ha appena iniziato l'ennesima discesa negli inferi, quella del sacco dei palazzinari, della speculazione edilizia più spregiudicata, raccontata da Francesco Rosi in “Le mani sulla città” film del 1963 sceneggiato appunto da Raffaele La Capria.
È il secondo libro di La Capria, un romanzo di formazione che somiglia a un romanzo della maturità, venne pubblicato nel 1961, anno in cui vinse il Premio Strega, ma era già pronto per la pubblicazione nel 1956. Romanzo di formazione, esistenziale, ma anche romanzo sperimentale, di denuncia... Alla fine rimane un'eco, come quella che si sente accostando una conchiglia all'orecchio: è lo sciabordio dei remi, le chiacchiere di una gioventù spensierata che finirà in un imbuto, il rumore dei pensieri tra sé e sé, il rumore che si fa apparecchiando la tavola.

A proposito di tavola, nel nostro incontro del 20 settembre, per un'esigenza di sobrietà, era stata bandita la cena luculliana (che poi è rientrata prepotentemente nei due incontri successivi visto che, soprattutto quando è “in tema” aiuta a sentire più vicini gli autori) e quindi inseriamo qui alcune riflessioni (di Luisa Marigliano) su cibo e letteratura, soprattuto legate a Napoli. Riflessioni che introdurranno ad Anna Maria Ortese.

La Capria in ‘Ferito a morte’ descrive un pranzo domenicale in cui viene servito un timballo di pasta. Ho visto nel Timballo sia ‘La Bella Giornata’ che ‘La Foresta Vergine’ di cui scrive La Capria in ‘Ferito a morte’. Il Timballo ha una forma che ricorda una scultura, la sua bellezza ti cattura ancor prima del suo sapore. Sta lì in mezzo al tavolo come una Bella Giornata piena di promesse. Poi vai oltre la sua ‘crosta’ e trovi un groviglio di pasta che si intreccia e che ricorda una Foresta.
La Bellezza e la bontà del timballo ti catturano e non ti lasciano andare sino a quando il vassoio non sarà vuoto. Quando lo avrai tutto consumato ti sentirai troppo pieno, non avrai altro spazio dentro di te, non avrai la forza di fare altro se non di scivolare in un sonno agitato. Napoli è una città così bella, così piena che non ti lascia spazio, quando ci vivi ti cattura e ti annienta. Malia dalla quale Raffaele, ‘Dudù’, La Capria, pur amandola, è scappato.

È quello che ha fatto anche Anna Maria Ortese (Roma, 1914-Rapallo, 1998), fuggita da una città dalla quale si è sentita rifiutata..
Nel suo libro ‘Il mare non bagna Napoli’ la Ortese scrive di cibo nel racconto ‘Interno familiare’ : “In tavola, in tavola! Gridò la Finizio, entrando nella stanza con un vassoio su cui fumava la zuppiera di porcellana bianca, piena di mille occhietti gialli del brodo … Avevano già consumato l’antipasto, e stavano assaggiando i primi tagliolini, con piccoli sospiri di soddisfazione…”. Ma non c’è pace né dentro casa né fuori. Dentro, Anastasia, la figlia maggiore, si era illusa con il ritorno di Antonio, un vicino di casa, che si potesse realizzare il suo sogno di ‘maritarsi’, sogno che si infrange quando le raccontano dell'imminente matrimonio di Antonio. Ma solo quando Anna, la sorella minore, si sposerà Anastasia sarà definitivamente zitella. Fuori ‘un brusio, un’onda larga e segreta di suoni, di sospiri che vengono dal cortile” li rende partecipi della morte di una vicina, donn’Amelia. Sul pranzo di Natale scende la tristezza.

La Ortese si preoccupava del costo del cibo, sempre attenta a risparmiare a causa delle sue difficoltà finanziarie, parla di salatini, non accenna mai al cucinare. Per il suo grande amore e rispetto verso gli animali esprime il suo dolore per il consumo della carne che richiede l'uccisione degli animali.

Il mare non bagna Napoli” uscì nel 1953 ma tutti abbiamo letto l'edizione Adelphi del 1994 che contiene un'introduzione scritta dall'autrice. Quattro anni prima di morire Ortese pensa dunque di scrivere un'introduzione al libro scritto quarant'anni prima e la intitolata Il “Mare”come spaesamento”. La scrive molto probabilmente per saldare i conti con un passato pieno di incomprensioni e di grande dolore, un dolore evidentemente ancora così vivo da rendere aspra anche questa specie di riconciliazione, come segnala l'inciso nella frase finale:
Resta il fatto piuttosto malinconico (o solo inconsueto?) che tanto la Napoli offesa (era poi veramente offesa o solo un po' indifferente? ), quanto la persona accusata di averle inventata una atroce nevrosi, non si siano, in seguito, più incontrate: proprio come se nulla fosse avvenuto.”
"Il mare non bagna Napoli", p. 11.

Ma andiamo per ordine: la raccolta si apre con due racconti, di sapore neo-realista, Un paio di occhiali e Interno Familiare, menzionato sopra a proposito del cibo. Il terzo racconto, Oro a Forcella, è un breve reportage, piuttosto allucinato, su una visita al monte dei pegni. Proprio in un brano di questo racconto c'è la frase che dà il titolo al libro:
Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questo erano decaduti in vizio e follia; … Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.
Ibidem, p. 67
Subito dopo, c'è il reportage intitolato “La città involontaria”, lunga discesa nelle viscere della città, attraverso il III e IV Granili, edificio borbonico costruito da Ferdinando Fuga e destinato alla raccolta del grano, ma con continui cambiamenti d'uso e via via sempre più deteriorato anche nella struttura. Nel degrado dell'edificio, all'epoca della visita della Ortese, si era impiantato un numero enorme di senzatetto (“tremila persone, divise in cinquecentosettanta famiglie, con una media di sei persone per famiglia”) che non è una comunità ma una massa informe, malata, arrabbiata o dolente. Un dipinto di Goya, si direbbe, talmente grottesco e oscuro che qualcuno di noi ha pensato che la visione non era obiettiva e che Anna Maria Ortese abbia dato reale sostanza ad una allucinazione. O, al meglio, ad una esagerazione emotiva. Conoscendo la sua produzione letteraria e il suo rapporto con Napoli, possono essere vere entrambe le supposizioni.


E infine l'ultima parte, quella che tanto scalpore destò quando il libro uscì. Una sezione intitolata significativamente “Il silenzio della ragione” in cui la scrittrice dà conto, con spietatezza, dell'ambiente intellettuale del suo tempo. Gli intellettuali descritti (con nomi e cognomi) sono visti all'interno delle loro case, con le loro piccolezze, i loro tic, le loro speranze frustrate di costituire un'avanguardia meridionale che finalmente faccia sollevare la città attraverso l'uso della Ragione. Ci sono pagine memorabili e ritratti al vetriolo che possono essere fatti solo da chi, in una data situazione, sta al contempo troppo dentro e troppo fuori. Impossibile da riassumere e da analizzare criticamente, non è il caso di questo blog, ci basta rimandare a un bell'articolo di Nello Ajello (che dello stesso ambiente faceva parte) basato su un'intervista alla scrittrice fatta a Milano in occasione della pubblicazione di Adelphi: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/05/15/ortese-spacca-napoli.html

e, tanto per rimanere in tema, alle amare parole di La Capria:
Milan Kundera dice che perfino il romanzo a chiave, quello in cui sotto il nome di un personaggio si riconosce una persona vera ed identificabile, «è una cosa esteticamente equivoca e moralmente scorretta». E aggiunge che «prima di pubblicare un libro (l'autore) dovrebbe preoccuparsi di nascondere accuratamente le chiavi che potrebbero rendere riconoscibili (i personaggi), anzitutto per un minimo di riguardo dovuto a chi avrà la sorpresa di scoprire nel romanzo qualche frammento della propria vita». Però ne Il mare non bagna Napoli la Ortese è andata ben oltre il limite del romanzo a chiave, e ha avuto ben meno di un minimo di riguardo verso le persone, perché non di qualche frammento delle loro vite si è impadronita ma, come ho detto, di tutto, e tutto ha spiattellato sotto gli occhi di tutti, perfino il numero dei capelli sul cranio della moglie di uno di loro! 
Napolitan graffiti: come eravamo, Milano: Rizzoli, 1998, p.116

S.Erasmo ai Granili (1972-1974), foto di Gian Luigi Gargiulo