domenica 25 dicembre 2016

Il mare non bagna la Foresta Vergine

Note sulla lettura di "Ferito a morte" di Raffaele La Capria e "Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortese


La curatrice di questo blog non è riuscita a dare conto di ben tre incontri che si sono succeduti dall'estate 2016 al dicembre di questo stesso anno.
Cerca ora di rimediare.

Dopo l'estate ci siamo visti per parlare di “Ferito a morte” di Raffaele La Capria e de “Il mare non bagna Napoli” di Annamaria Ortese. Il grado di separazione con la lettura precedente era molto diretto: Camus ci aveva lanciato un richiamo mediterraneo dall'Algeria, e noi lo abbiamo ripreso in Italia, a Napoli.

Si può dire che il romanzo di La Capria (Napoli, 1922) comincia in mare perché nella prima scena il protagonista Massimo, appisolato nel soggiorno di casa sua, sta sognando di inseguire una spigola sott'acqua. Deve tirare sulla spigola, ma manca l'azione e la spigola si rintana in qualche anfratto. La spigola ha un nome, si chiama Occasione Mancata ed è il simbolo di tutto quello che Massimo non riesce a fare, o per una sua “pigrizia maledetta” o per l'abbraccio asfissiante della “Foresta Vergine”, nome che lui dà a Napoli, immagine-simbolo della sua prepotente bellezza e della sua impenetrabilità, della sua terribile “naturalità”.
Quasi in dormiveglia, Massimo inizia a raccontare e da questo momento in poi siamo costretti – pena la non comprensione di ciò che leggiamo - a sintonizzarci con un flusso di coscienza fatto di rapide immagini, rapidi accenni a persone con nome e cognome, caratterizzate in modo fulmineo, cui si attacca – come le patelle allo scoglio – qualche considerazione più profonda. Il racconto è costruito su flash back di tipo particolare: La Capria non ti avverte che il Massimo che parla ora è quello del ricordo, ci devi arrivare lasciandoti andare, e il “flusso” dei “quasi-pensieri” è veramente acquatico. Anzitutto nella descrizione della cosiddetta “bella giornata” che apparentemente non è altro che una giornata di sole al mare, ma che in realtà si annuncia come il miracolo di una giornata perfetta, colta in “un'esagerazione di luce” con l'acqua che è “una meraviglia”, un tempo perfetto in cui si è integri e soprattutto si è padroni di sé, delle proprie relazioni, delle proprie aspettative.
Un'illusione dunque, che sfuma ogni volta che la giornata finisce ma che comunica anche a noi che leggiamo un residuo di bellezza ineffabile che si sedimenta e che rende difficile pensarsi felici altrove. Sì perché Massimo sta per partire ma non si decide. Un amico, Gaetano, che ha già fatto la scelta, gli scrive lettere per spronarlo. Ma Gaetano, che “neanche nuotare sa”, potrebbe mai capire che ciò che trattiene Massimo è “ritrovare uno solo di quei giorni intatto com'era, ritrovare una mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza – e rimettere tutto a posto da quel punto” ?
Massimo vive in Palazzo Medina (sappiamo che è il Palazzo Donn'Anna, realmente abitato da La Capria con la famiglia), un palazzo che per via di quella Natura che a Napoli ha sempre la meglio sulla Storia, e che qui ha il nome di bradisismo, lentamente è affondato in acqua. Lo guarda e non può fare a meno di pensare, visto che il palazzo la città non la può lasciare, che entro alcuni secoli, forse proprio in una bella giornata, il palazzo sprofonderà e i pesci nuoteranno nelle stanze irriconoscibili per le incrostazioni marine. “Solo questione di tempo”.
Nella seconda parte (gli ultimi tre capitoli) Massimo, che già si è trasferito a Roma, torna in vacanza a casa, incontra di nuovo i suoi amici. Sono passati pochi anni ma hanno lasciato il segno. Sasà, l'irresistibile Sasà, vive di espedienti, come ha sempre fatto del resto, ma la sua figura non ha più l'alone dorato di quand'era giovane. Ogni tanto anche lui sale a Roma, l'inverno a Napoli è insopportabile, a lui ci vuole l'estate. Ma altro che estate ci vuole per Napoli: la città ha appena iniziato l'ennesima discesa negli inferi, quella del sacco dei palazzinari, della speculazione edilizia più spregiudicata, raccontata da Francesco Rosi in “Le mani sulla città” film del 1963 sceneggiato appunto da Raffaele La Capria.
È il secondo libro di La Capria, un romanzo di formazione che somiglia a un romanzo della maturità, venne pubblicato nel 1961, anno in cui vinse il Premio Strega, ma era già pronto per la pubblicazione nel 1956. Romanzo di formazione, esistenziale, ma anche romanzo sperimentale, di denuncia... Alla fine rimane un'eco, come quella che si sente accostando una conchiglia all'orecchio: è lo sciabordio dei remi, le chiacchiere di una gioventù spensierata che finirà in un imbuto, il rumore dei pensieri tra sé e sé, il rumore che si fa apparecchiando la tavola.

A proposito di tavola, nel nostro incontro del 20 settembre, per un'esigenza di sobrietà, era stata bandita la cena luculliana (che poi è rientrata prepotentemente nei due incontri successivi visto che, soprattutto quando è “in tema” aiuta a sentire più vicini gli autori) e quindi inseriamo qui alcune riflessioni (di Luisa Marigliano) su cibo e letteratura, soprattuto legate a Napoli. Riflessioni che introdurranno ad Anna Maria Ortese.

La Capria in ‘Ferito a morte’ descrive un pranzo domenicale in cui viene servito un timballo di pasta. Ho visto nel Timballo sia ‘La Bella Giornata’ che ‘La Foresta Vergine’ di cui scrive La Capria in ‘Ferito a morte’. Il Timballo ha una forma che ricorda una scultura, la sua bellezza ti cattura ancor prima del suo sapore. Sta lì in mezzo al tavolo come una Bella Giornata piena di promesse. Poi vai oltre la sua ‘crosta’ e trovi un groviglio di pasta che si intreccia e che ricorda una Foresta.
La Bellezza e la bontà del timballo ti catturano e non ti lasciano andare sino a quando il vassoio non sarà vuoto. Quando lo avrai tutto consumato ti sentirai troppo pieno, non avrai altro spazio dentro di te, non avrai la forza di fare altro se non di scivolare in un sonno agitato. Napoli è una città così bella, così piena che non ti lascia spazio, quando ci vivi ti cattura e ti annienta. Malia dalla quale Raffaele, ‘Dudù’, La Capria, pur amandola, è scappato.

È quello che ha fatto anche Anna Maria Ortese (Roma, 1914-Rapallo, 1998), fuggita da una città dalla quale si è sentita rifiutata..
Nel suo libro ‘Il mare non bagna Napoli’ la Ortese scrive di cibo nel racconto ‘Interno familiare’ : “In tavola, in tavola! Gridò la Finizio, entrando nella stanza con un vassoio su cui fumava la zuppiera di porcellana bianca, piena di mille occhietti gialli del brodo … Avevano già consumato l’antipasto, e stavano assaggiando i primi tagliolini, con piccoli sospiri di soddisfazione…”. Ma non c’è pace né dentro casa né fuori. Dentro, Anastasia, la figlia maggiore, si era illusa con il ritorno di Antonio, un vicino di casa, che si potesse realizzare il suo sogno di ‘maritarsi’, sogno che si infrange quando le raccontano dell'imminente matrimonio di Antonio. Ma solo quando Anna, la sorella minore, si sposerà Anastasia sarà definitivamente zitella. Fuori ‘un brusio, un’onda larga e segreta di suoni, di sospiri che vengono dal cortile” li rende partecipi della morte di una vicina, donn’Amelia. Sul pranzo di Natale scende la tristezza.

La Ortese si preoccupava del costo del cibo, sempre attenta a risparmiare a causa delle sue difficoltà finanziarie, parla di salatini, non accenna mai al cucinare. Per il suo grande amore e rispetto verso gli animali esprime il suo dolore per il consumo della carne che richiede l'uccisione degli animali.

Il mare non bagna Napoli” uscì nel 1953 ma tutti abbiamo letto l'edizione Adelphi del 1994 che contiene un'introduzione scritta dall'autrice. Quattro anni prima di morire Ortese pensa dunque di scrivere un'introduzione al libro scritto quarant'anni prima e la intitolata Il “Mare”come spaesamento”. La scrive molto probabilmente per saldare i conti con un passato pieno di incomprensioni e di grande dolore, un dolore evidentemente ancora così vivo da rendere aspra anche questa specie di riconciliazione, come segnala l'inciso nella frase finale:
Resta il fatto piuttosto malinconico (o solo inconsueto?) che tanto la Napoli offesa (era poi veramente offesa o solo un po' indifferente? ), quanto la persona accusata di averle inventata una atroce nevrosi, non si siano, in seguito, più incontrate: proprio come se nulla fosse avvenuto.”
"Il mare non bagna Napoli", p. 11.

Ma andiamo per ordine: la raccolta si apre con due racconti, di sapore neo-realista, Un paio di occhiali e Interno Familiare, menzionato sopra a proposito del cibo. Il terzo racconto, Oro a Forcella, è un breve reportage, piuttosto allucinato, su una visita al monte dei pegni. Proprio in un brano di questo racconto c'è la frase che dà il titolo al libro:
Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questo erano decaduti in vizio e follia; … Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.
Ibidem, p. 67
Subito dopo, c'è il reportage intitolato “La città involontaria”, lunga discesa nelle viscere della città, attraverso il III e IV Granili, edificio borbonico costruito da Ferdinando Fuga e destinato alla raccolta del grano, ma con continui cambiamenti d'uso e via via sempre più deteriorato anche nella struttura. Nel degrado dell'edificio, all'epoca della visita della Ortese, si era impiantato un numero enorme di senzatetto (“tremila persone, divise in cinquecentosettanta famiglie, con una media di sei persone per famiglia”) che non è una comunità ma una massa informe, malata, arrabbiata o dolente. Un dipinto di Goya, si direbbe, talmente grottesco e oscuro che qualcuno di noi ha pensato che la visione non era obiettiva e che Anna Maria Ortese abbia dato reale sostanza ad una allucinazione. O, al meglio, ad una esagerazione emotiva. Conoscendo la sua produzione letteraria e il suo rapporto con Napoli, possono essere vere entrambe le supposizioni.


E infine l'ultima parte, quella che tanto scalpore destò quando il libro uscì. Una sezione intitolata significativamente “Il silenzio della ragione” in cui la scrittrice dà conto, con spietatezza, dell'ambiente intellettuale del suo tempo. Gli intellettuali descritti (con nomi e cognomi) sono visti all'interno delle loro case, con le loro piccolezze, i loro tic, le loro speranze frustrate di costituire un'avanguardia meridionale che finalmente faccia sollevare la città attraverso l'uso della Ragione. Ci sono pagine memorabili e ritratti al vetriolo che possono essere fatti solo da chi, in una data situazione, sta al contempo troppo dentro e troppo fuori. Impossibile da riassumere e da analizzare criticamente, non è il caso di questo blog, ci basta rimandare a un bell'articolo di Nello Ajello (che dello stesso ambiente faceva parte) basato su un'intervista alla scrittrice fatta a Milano in occasione della pubblicazione di Adelphi: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/05/15/ortese-spacca-napoli.html

e, tanto per rimanere in tema, alle amare parole di La Capria:
Milan Kundera dice che perfino il romanzo a chiave, quello in cui sotto il nome di un personaggio si riconosce una persona vera ed identificabile, «è una cosa esteticamente equivoca e moralmente scorretta». E aggiunge che «prima di pubblicare un libro (l'autore) dovrebbe preoccuparsi di nascondere accuratamente le chiavi che potrebbero rendere riconoscibili (i personaggi), anzitutto per un minimo di riguardo dovuto a chi avrà la sorpresa di scoprire nel romanzo qualche frammento della propria vita». Però ne Il mare non bagna Napoli la Ortese è andata ben oltre il limite del romanzo a chiave, e ha avuto ben meno di un minimo di riguardo verso le persone, perché non di qualche frammento delle loro vite si è impadronita ma, come ho detto, di tutto, e tutto ha spiattellato sotto gli occhi di tutti, perfino il numero dei capelli sul cranio della moglie di uno di loro! 
Napolitan graffiti: come eravamo, Milano: Rizzoli, 1998, p.116

S.Erasmo ai Granili (1972-1974), foto di Gian Luigi Gargiulo

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