Note sulla lettura di "Ferito a morte" di Raffaele La Capria e "Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortese
La curatrice di questo blog non è riuscita a dare conto di ben tre incontri che si sono succeduti dall'estate 2016 al dicembre di questo stesso anno.
Cerca ora di rimediare.
Dopo l'estate ci siamo visti
per parlare di “Ferito a morte” di Raffaele La Capria e de “Il
mare non bagna Napoli” di Annamaria Ortese. Il grado di separazione
con la lettura precedente era molto diretto: Camus ci aveva lanciato
un richiamo mediterraneo dall'Algeria, e noi lo abbiamo ripreso in
Italia, a Napoli.
Si può dire che il romanzo
di La Capria (Napoli, 1922) comincia in mare perché nella prima
scena il protagonista Massimo, appisolato nel soggiorno di casa sua,
sta sognando di inseguire una spigola sott'acqua. Deve tirare sulla
spigola, ma manca l'azione e la spigola si rintana in qualche
anfratto. La spigola ha un nome, si chiama Occasione Mancata ed è il
simbolo di tutto quello che Massimo non riesce a fare, o per una sua
“pigrizia maledetta” o per l'abbraccio asfissiante della “Foresta
Vergine”, nome che lui dà a Napoli, immagine-simbolo della sua
prepotente bellezza e della sua impenetrabilità, della sua terribile
“naturalità”.
Quasi in dormiveglia,
Massimo inizia a raccontare e da questo momento in poi siamo
costretti – pena la non comprensione di ciò che leggiamo - a
sintonizzarci con un flusso di coscienza fatto di rapide immagini,
rapidi accenni a persone con nome e cognome, caratterizzate in modo
fulmineo, cui si attacca – come le patelle allo scoglio – qualche
considerazione più profonda. Il racconto è costruito su flash back
di tipo particolare: La Capria non ti avverte che il Massimo che
parla ora è quello del ricordo, ci devi arrivare lasciandoti andare,
e il “flusso” dei “quasi-pensieri” è veramente acquatico.
Anzitutto nella descrizione della cosiddetta “bella giornata” che
apparentemente non è altro che una giornata di sole al mare, ma che
in realtà si annuncia come il miracolo di una giornata perfetta,
colta in “un'esagerazione di luce” con l'acqua che è “una
meraviglia”, un tempo perfetto in cui si è integri e soprattutto
si è padroni di sé, delle proprie relazioni, delle proprie
aspettative.
Un'illusione dunque, che
sfuma ogni volta che la giornata finisce ma che comunica anche a noi
che leggiamo un residuo di bellezza ineffabile che si sedimenta e che
rende difficile pensarsi felici altrove. Sì perché Massimo sta per
partire ma non si decide. Un amico, Gaetano, che ha già fatto la
scelta, gli scrive lettere per spronarlo. Ma Gaetano, che “neanche
nuotare sa”, potrebbe mai capire che ciò che trattiene Massimo è
“ritrovare uno solo di quei giorni intatto com'era, ritrovare una
mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza
– e rimettere tutto a posto da quel punto” ?

Nella seconda parte (gli
ultimi tre capitoli) Massimo, che già si è trasferito a Roma, torna
in vacanza a casa, incontra di nuovo i suoi amici. Sono passati pochi
anni ma hanno lasciato il segno. Sasà, l'irresistibile Sasà, vive di
espedienti, come ha sempre fatto del resto, ma la sua figura non ha
più l'alone dorato di quand'era giovane. Ogni tanto anche lui sale a
Roma, l'inverno a Napoli è insopportabile, a lui ci vuole l'estate.
Ma altro che estate ci vuole per Napoli: la città ha appena iniziato
l'ennesima discesa negli inferi, quella del sacco dei palazzinari,
della speculazione edilizia più spregiudicata, raccontata da
Francesco Rosi in “Le mani sulla città” film del 1963
sceneggiato appunto da Raffaele La Capria.
È il secondo libro di La
Capria, un romanzo di formazione che somiglia a un romanzo della
maturità, venne pubblicato nel 1961, anno in cui vinse il Premio
Strega, ma era già pronto per la pubblicazione nel 1956. Romanzo di
formazione, esistenziale, ma anche romanzo sperimentale, di
denuncia... Alla fine rimane un'eco, come quella che si sente
accostando una conchiglia all'orecchio: è lo sciabordio dei remi, le
chiacchiere di una gioventù spensierata che finirà in un imbuto, il
rumore dei pensieri tra sé e sé, il rumore che si fa apparecchiando
la tavola.
A proposito di tavola, nel
nostro incontro del 20 settembre, per un'esigenza di sobrietà, era
stata bandita la cena luculliana (che poi è rientrata
prepotentemente nei due incontri successivi visto che, soprattutto
quando è “in tema” aiuta a sentire più vicini gli autori) e
quindi inseriamo qui alcune riflessioni (di Luisa Marigliano) su cibo
e letteratura, soprattuto legate a Napoli. Riflessioni che
introdurranno ad Anna Maria Ortese.
La
Capria in ‘Ferito a morte’ descrive un pranzo domenicale in cui
viene servito un timballo di pasta. Ho visto nel Timballo sia ‘La
Bella Giornata’ che ‘La Foresta Vergine’ di cui scrive La
Capria in ‘Ferito a morte’. Il Timballo ha una forma che ricorda
una scultura, la sua bellezza ti cattura ancor prima del suo sapore.
Sta lì in mezzo al tavolo come una Bella Giornata piena di promesse.
Poi vai oltre la sua ‘crosta’ e trovi un groviglio di pasta che
si intreccia e che ricorda una Foresta.
La
Bellezza e la bontà del timballo ti catturano e non ti lasciano
andare sino a quando il vassoio non sarà vuoto. Quando lo avrai
tutto consumato ti sentirai troppo pieno, non avrai altro spazio
dentro di te, non avrai la forza di fare altro se non di scivolare in
un sonno agitato. Napoli è una città così bella, così piena che
non ti lascia spazio, quando ci vivi ti cattura e ti annienta. Malia
dalla quale Raffaele, ‘Dudù’, La Capria, pur amandola, è
scappato.
È
quello che ha fatto anche Anna Maria Ortese (Roma, 1914-Rapallo,
1998), fuggita da una città dalla quale si è sentita rifiutata..
Nel
suo libro ‘Il mare non bagna Napoli’ la Ortese scrive di cibo nel
racconto ‘Interno familiare’ : “In tavola, in tavola! Gridò la
Finizio, entrando nella stanza con un vassoio su cui fumava la
zuppiera di porcellana bianca, piena di mille occhietti gialli del
brodo … Avevano già consumato l’antipasto, e stavano
assaggiando i primi tagliolini, con piccoli sospiri di
soddisfazione…”. Ma non c’è pace né dentro casa né fuori.
Dentro, Anastasia, la figlia maggiore, si era illusa con il ritorno
di Antonio, un vicino di casa, che si potesse realizzare il suo sogno
di ‘maritarsi’, sogno che si infrange quando le raccontano
dell'imminente matrimonio di Antonio. Ma solo quando Anna, la sorella
minore, si sposerà Anastasia sarà definitivamente zitella. Fuori
‘un brusio, un’onda larga e segreta di suoni, di sospiri che
vengono dal cortile” li rende partecipi della morte di una vicina,
donn’Amelia. Sul pranzo di Natale scende la tristezza.
La
Ortese si preoccupava del costo del cibo, sempre attenta a
risparmiare a causa delle sue difficoltà finanziarie, parla di
salatini, non accenna mai al cucinare. Per il suo grande amore e
rispetto verso gli animali esprime il suo dolore per il consumo della
carne che richiede l'uccisione degli animali.
“Il mare non bagna
Napoli” uscì nel 1953 ma tutti abbiamo letto l'edizione Adelphi
del 1994 che contiene un'introduzione scritta dall'autrice. Quattro
anni prima di morire Ortese pensa dunque di scrivere un'introduzione
al libro scritto quarant'anni prima e la intitolata Il “Mare”come spaesamento”. La scrive molto probabilmente per saldare i conti con un passato pieno di
incomprensioni e di grande dolore, un dolore evidentemente ancora
così vivo da rendere aspra anche questa specie di riconciliazione,
come segnala l'inciso nella frase finale:
“Resta
il fatto piuttosto malinconico (o solo inconsueto?) che tanto la
Napoli offesa (era poi veramente offesa o solo un po' indifferente?
), quanto la persona accusata di averle inventata una atroce nevrosi,
non si siano, in seguito, più incontrate: proprio come se nulla
fosse avvenuto.”
"Il
mare non bagna Napoli", p. 11.
Ma
andiamo per ordine: la raccolta si apre con due racconti, di sapore
neo-realista, Un paio di occhiali e
Interno Familiare, menzionato
sopra a proposito del cibo. Il terzo racconto, Oro a
Forcella, è un breve reportage,
piuttosto allucinato, su una visita al monte dei pegni. Proprio in un
brano di questo racconto c'è la frase che dà il titolo al libro:
Non
occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto,
e proprio per questo erano decaduti in vizio e follia; … Qui, il
mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo
ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del
sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.
Ibidem,
p. 67
Subito
dopo, c'è il reportage intitolato “La città involontaria”,
lunga discesa nelle viscere della città, attraverso il III e IV
Granili, edificio borbonico costruito da Ferdinando Fuga e destinato
alla raccolta del grano, ma con continui cambiamenti d'uso e via via
sempre più deteriorato anche nella struttura. Nel degrado
dell'edificio, all'epoca della visita della Ortese, si era impiantato
un numero enorme di senzatetto (“tremila persone, divise in
cinquecentosettanta famiglie, con una media di sei persone per
famiglia”) che non è una comunità ma una massa informe, malata,
arrabbiata o dolente. Un dipinto di Goya, si direbbe, talmente
grottesco e oscuro che qualcuno di noi ha pensato che la visione non
era obiettiva e che Anna Maria Ortese abbia dato reale sostanza ad
una allucinazione. O, al meglio, ad una esagerazione emotiva.
Conoscendo la sua produzione letteraria e il suo rapporto con Napoli,
possono essere vere entrambe le supposizioni.
E
infine l'ultima parte, quella che tanto scalpore destò quando il
libro uscì. Una sezione intitolata significativamente “Il silenzio
della ragione” in cui la scrittrice dà conto, con spietatezza,
dell'ambiente intellettuale del suo tempo. Gli intellettuali
descritti (con nomi e cognomi) sono visti all'interno delle loro
case, con le loro piccolezze, i loro tic, le loro speranze frustrate
di costituire un'avanguardia meridionale che finalmente faccia
sollevare la città attraverso l'uso della Ragione. Ci sono pagine
memorabili e ritratti al vetriolo che possono essere fatti solo da
chi, in una data situazione, sta al contempo troppo dentro e troppo
fuori. Impossibile da riassumere e da analizzare criticamente, non è
il caso di questo blog, ci basta rimandare a un bell'articolo di
Nello Ajello (che dello stesso ambiente faceva parte) basato su
un'intervista alla scrittrice fatta a Milano in occasione della
pubblicazione di Adelphi:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/05/15/ortese-spacca-napoli.html
e, tanto per rimanere in
tema, alle amare parole di La Capria:
Milan
Kundera dice che perfino il romanzo
a chiave, quello in cui sotto il nome di un personaggio si
riconosce una persona vera ed identificabile, «è una cosa
esteticamente equivoca e moralmente scorretta». E aggiunge che
«prima di pubblicare un libro (l'autore) dovrebbe preoccuparsi di
nascondere accuratamente le chiavi che potrebbero rendere
riconoscibili (i personaggi), anzitutto per un minimo di riguardo
dovuto a chi avrà la sorpresa di scoprire nel romanzo qualche
frammento della propria vita». Però ne Il mare non bagna
Napoli la Ortese è andata ben oltre il limite del romanzo a
chiave, e ha avuto ben meno di un minimo di riguardo verso le
persone, perché non di qualche frammento delle loro vite si è
impadronita ma, come ho detto, di tutto, e tutto ha
spiattellato sotto gli occhi di tutti, perfino il numero dei capelli
sul cranio della moglie di uno di loro!
Napolitan
graffiti: come eravamo, Milano: Rizzoli, 1998, p.116
S.Erasmo ai Granili (1972-1974), foto di Gian Luigi Gargiulo
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