L'incontro su “Manhattan
Transfer” di John Dos Passos, nostra penultima tappa nella
letteratura americana della prima metà del '900, è avvenuto il 27
aprile. La memoria non assiste molto l'estensore di queste note che
non ricorda come si è svolto il banchetto che ritualmente precede il
librarsi del gruppo nella disamina critica.... Ma sarà stato come
sempre soddisfacentissimo.
Il libro è piaciuto molto a
tutti. E c'era da scommetterci per vari motivi.
Anzitutto, disabituati come
siamo alla sperimentazione letteraria (roba del secolo scorso),
toccarla – o ritoccarla - con mano significa capire che essa non
solo non ostacola ma invoglia la lettura. Alla fine si capisce,
insomma, come nei casi migliori di incontri letterari, che si è
fatta un' “esperienza”, nel senso più pieno del termine.
Secondo, per chi c'è stato
come per chi non c'è stato, New York È gli Stati Uniti, il paese
che stavamo visitando con le letture.
Quindi anzitutto, una
scrittura potente, originale, che, si potrebbe dire, “governa” la
trama, e la visione della città.
Molti autori di blog
letterari (oltre a quelli della carta stampata) hanno
dedicato ultimamente molto spazio ai libri non solo di Dos Passos,
ma anche di Fitzgerald, Hemingway, Steinbeck, per un motivo
molto semplice: questi autori, che fino agli anni '70 del '900 erano
studiati, stampati e letti, a un certo punto sono stati abbandonati
dai lettori e dalle case editrici. Da qualche anno sono riprese le
ristampe, e in particolare il nostro libro è stato ristampato nel
2002 e poi nel 2012, dopo un'eclissi di circa 50 anni....
John Dos Passos (1896-1970)
pubblicò il romanzo nel 1925. L'odore del crollo della Borsa,
avvenuto quattro anni dopo, si sente da tutte le parti.
All'inizio del libro ci
accoglie uno scenario potente, fatto di acqua: l'acqua in movimento,
sporca e piena di detriti del
porto (bucce d'arancia...
onde vedastre);
poi i moli, le banchine e i ponti di traghetti altrettanto sporchi. E
poi rumore, molto rumore (argani
… saracinesche che si alzano).
Poco distante, l'odore del carbone, delle uova fritte. Si è detto
che questo è un romanzo olfattivo e uditivo ed è vero.
Emblematicamente
i primi due personaggi che incontriamo sono di opposta estrazione
sociale. Il primo, Bud Korpenning, è un giovane che viene dalla
campagna a New York sognando di emanciparsi dal suo passato (che
contiene anche un delitto) e che, molte pagine dopo, a sogno
infranto, vediamo gettarsi dal ponte di Brooklyn. Il secondo, Ed
Thatcher, è un oscuro contabile con molte ambizioni ma molto
mediocre, che va a trovare la moglie che ha appena partorito una
figlia, Ellen, che vedremo crescere e diventare una delle
protagoniste del romanzo, un'affascinante e riconosciuta attrice di
teatro, all'apparenza solida e affidabile, in realtà di una
freddezza emotiva sconcertante.
Il
personaggio di Ellen è costruito nello stesso modo in cui Dos Passos
costruisce l'immagine della realtà, a macchia di leopardo, per
frammenti quasi cubisti, per elementi spezzati, non dialoganti,
contraddittori. Ellen è non a caso il personaggio che più ci ha
fatto discutere...
E
poi c'è tutto un mondo di personaggi che si muovono nella città le
cui azioni girano attorno a uno scopo centrale: fare soldi, stando
attenti a non farseli rubare (“Dollari” è il titolo del terzo
capitolo), e affermarsi nella società (un altro modo per dire la
stessa cosa); alcuni totalmente sbandati e distrutti dall'abuso di alcool, trasversalmente rispetto alla classe sociale
d'appartenenza.
Per affermarsi e per avere successo si accetta di
vivere in costante alternanza tra estremi “di sovraeccitazione e di
angoscia” (vedi link al libro di Mauro Pala, “Allegorie
metropolitane”, qui sotto), di esaltazione e di presentimento di
rovina, rovina spesso incarnata dal fuoco, che distrugge palazzi,
devasta i corpi.
Nell'ottimo
articolo che si trova a questo link:
http://www.leparoleelecose.it/?p=6791,
si dice che questo non è un romanzo corale, piuttosto un romanzo
collettivista, nel senso che i destini sono tutti sullo stesso piano,
ma ciò non toglie che ciascuna storia sia nitida e contenga un
destino che sembra già scritto. Un piano inclinato verso
l'autodistruzione, si direbbe. Se non è un coro sembra un arazzo, un
grande arazzo con storie diverse su uno stesso sfondo, piegato
secondo l'angolo di visuale del protagonista del momento.
L'"Ulisse" di Joyce era stato pubblicato tre anni prima e il flusso di coscienza
si impone (lo userà anche Faulkner, ne “l'Urlo e il Furore”,
pubblicato nel fatidico 1929) ma Dos Passos lo spezza e lo piega in
un infinito numero di dialoghi mantenendone però il ritmo
implacabile e trascinante.
Forse
non c'è modo migliore per immaginarsi la città che in questo
documentario di Paul Strand del 1921, cui non a caso, si disse che
Dos Passos si sia ispirato. Il suo titolo è “Manhatta”.
Eccolo:
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