martedì 27 dicembre 2016

Fiesta (ovvero lo zio Ernest)

Ecco un post a cura di Andrea Colasanti, conoscitore e amante dello zio Ernest....


Martedì 22 novembre si è svolta la discussione su “Fiesta” primo libro di Ernest Hemingway, in un clima poco parigino e non troppo toreador con l’eccezione di un paio di bottiglie di vino rosso e un Fundador. Sul tavolo facevano bella mostra di sé alcune vecchie versioni di “Fiesta”, segno che il libro ha segnato più la fase giovanile di alcuni partecipanti al convivio che quella attuale.
Appare subito chiaro che non tutti hanno finito il libro, trovando forse la storia poco coinvolgente.
Eppure Hemingway, Nobel nel 1954, è stato un faro per due generazioni di scrittori americani e “Fiesta” un romanzo di formazione per generazioni di ventenni.
Ernest Miller Hemingway (Oak Park, 21 luglio 1899 – Ketchum, 2 luglio 1961) è stato scrittore e giornalista statunitense. Condusse una vita turbolenta, fece parte della comunità di espatriati americani a Parigi durante gli anni venti, si sposò quattro volte. Ricevette il Premio Pulitzer nel 1953 per “Il vecchio e il mare”, e vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Lo stile letterario di Hemingway, ebbe una significativa influenza sullo sviluppo del Romanzo americano del XX secolo. Molte delle sue opere sono considerate pietre miliari della letteratura americana.
I suoi romanzi, in ordine cronologico, sono:

1926 - The Sun Also Rises (Fiesta: Il sole sorgerà ancora)
1929 - A Farewell to Arms (Addio alle armi)
1932 - Death in the Afternoon (Morte nel pomeriggio)
1935 - The Green Hills of Africa (Verdi colline d'Africa)
1937 - To Have and Have Not (Avere e non avere)
1940 - For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana)
1950 - Across the River and Into the Trees (Di là dal fiume e tra gli alberi)
1952 - The Old Man and the Sea (Il vecchio e il mare)

Hemingway ebbe una vita avventurosa: ragazzo del ’99 volontario in Italia durante la prima guerra mondiale, ferito e decorato; volontario nella guerra civile spagnola; sbarcato in Normandia come giornalista al seguito delle truppe americane; amico di Fidel Castro; gran viaggiatore; gran bevitore; boxeur dilettante; appassionato di caccia e pesca; allevatore di gatti; padrino di noti cocktail cubani. Ha distribuito tutto questo nei suoi romanzi.
Ha terminato la sua vita a 62 anni sparandosi con il suo fucile da caccia.

Nel 1926, a 27 anni, pubblica il suo primo romanzo, scritto in 48 giorni: “The sun also rises” (“Fiesta”) ispirato ad avvenimenti realmente accaduti durante una estate passata a Pamplona con alcuni amici e una lady inglese in attesa di divorzio. La trama è abbastanza semplice ed i dialoghi molto serrati. In estrema sintesi, è la storia di un Amore Impossibile, ben condito da grandi bevute, viaggi, scazzottate, corride e pesca alla trota. Tutto il libro si può racchiudere nell’ultimo magistrale dialogo tra i due protagonisti principali: Jake, giornalista americano a Parigi, reso impotente da una ferita di guerra, e Brett, affascinante e spregiudicata Lady inglese, oggetto di desiderio e di contrasto all’interno del gruppo.
"Oh, Jake" disse Brett. "Noi due saremmo stati bene assieme."
Di fronte a noi su una pedana, un poliziotto in kaki dirigeva il traffico. Alzò la sua mazza. La macchina improvvisamente rallentò, spingendo Brett contro di me.
"Già" dissi io, "non è bello pensare così?"
(votata come numero 1 “Famous Last Words: Our 20 Favorite Final Lines in Literature”: Best pessimistic diagnosis of a resigned and wistful generation)

TRAMA
Jake è un giornalista americano corrispondente da Parigi per l’Herald Tribune, ferito, nel corpo e nel morale, durante la prima guerra mondiale. A Parigi frequenta un gruppo di nullafacenti sbevazzoni che conduce una vita inutile e dispendiosa, girovagando per locali notturni (gli americani sfuggivano così gli orrori della guerra e del proibizionismo imperante negli States). Polo di attrazione di questo gruppo è Lady Brett, una bella e disinibita donna inglese che turba gli animi e gli ormoni della maggior parte degli uomini della compagnia. Questa atmosfera sarà immortalata dall’appellativo di “Lost Generation”, affibbiato da Gertrude Stein e poi descritto dallo stesso Hemingway nel romanzo postumo “Festa Mobile”.
Il gruppetto decide di recarsi a Pamplona per vedere le corride organizzate durante la Fiesta di San Firmino (7 luglio), al seguito di Jake, vero Aficionado delle corride. Prima di arrivare a Pamplona, Jake si concede alcuni rilassanti giorni di pesca in compagnia dell’amico Bill mentre Robert Cohn e Brett passano una notte insieme, rovinando per sempre la vita del giovane ebreo e contribuendo ad incrinare l’umore del gruppo per il resto del libro.
L’atmosfera dell’Encierro e gli alcolici bevuti a profusione scaldano rapidamente gli animi del nostro gruppo di amici e i dialoghi si fanno sempre più fitti e spigolosi per culminare in insulti nervosi e virili scazzottate.
Durante una corrida Brett ha un colpo di fulmine per Romero, un giovane e tenebroso torero che la omaggerà con le orecchie dei tori da lui uccisi. La relazione tra i due susciterà l’indignazione degli Aficionados spagnoli che inorridiscono alla vista della perdizione del giovane e promettente toreador.
Finita la Fiesta il gruppo si sfalda. Brett scappa con il torero, Jake torna verso la Francia con Bill e Mike, il fidanzato di Brett, ma i tre si dividono al confine tra Spagna e Francia. Jake si gode ancora qualche giorno di vacanza solitaria al mare quando riceve un telegramma di Brett da Madrid che chiedeva il suo aiuto. Jake corre da lei e la trova in un piccolo hotel, sola e in lacrime. Ha capito che doveva lasciar andare Romero, per il bene del ragazzo, e tornare da Mike. I due protagonisti se ne vanno in taxi per Madrid condividendo la tristezza per una vita che non è stata.

INNOVAZIONI E TEMI TRATTATI
La trama apparentemente semplice sottende in realtà molte tematiche più o meno esplicite.
Gli americani che iniziano a fare veramente gli Americani, ovvero a sentirsi liberi, ricchi e superiori nella vecchia Europa più che a casa loro. La Guerra, vista attraverso la sventura personale del protagonista. La pesca, la natura, la corrida, elementi, insieme alla caccia, che ritornano spesso in quasi tutti i libri di Hemingway. L’antisemitismo latente: il personaggio Robert Cohn viene sempre etichettato “Jew” ed è sempre il più escluso dal gruppo ed il meno coinvolto nella Fiesta. Il personaggio femminile per la prima volta così disinibito: divorziata, beve, fuma, sceglie e cambia uomini a suo piacimento e gli uomini si azzuffano per lei. Ma è al tempo stesso fragile, triste ed insoddisfatta. (NdR: Grazia Deledda riceveva il premio Nobel nel 1926, anno di pubblicazione di Fiesta. Qualche differenza tra i personaggi femminili??).
Nel libro serpeggia anche una morale che spinge a provare tristezza per queste persone infelici, sbronze, inconcludenti e litigiose. Jake, il protagonista, sembra essere l’unico personaggio con delle regole “morali”: ha un lavoro regolare, si lascia andare meno degli altri alle ubriacature, è più indulgente e tollerante degli altri. Anche Lady Brett alla fine si dimostra meno egoista e spregiudicata di quello che lasciava apparire e i suoi dialoghi più intimi con Jake lasciano trasparire sensibilità e fragilità.
Le varie traduzioni italiane sono decisamente datate ed attutiscono il ritmo breve, secco e veloce tipico di Hemingway.

Ecco le nostre edizioni, dopo cena

Deviazione oltreoceano: “L'Urlo e il Furore” di William Faulkner



Per dare finalmente spazio all'esigenza molto sentita nel gruppo, almeno da una parte di esso, di fare un'incursione di più titoli nella letteratura americana, abbiamo iniziato da Faulkner, rendendoci immediatamente conto che ci eravamo imbattuti in un altro Nobel (sarà una maledizione?), ricevuto dallo scrittore nel 1949 con questa motivazione: Per il suo potente e artisticamente unico contributo al romanzo moderno americano”

Come ricorda Attilio Bertolucci nella postfazione dell'edizione Einaudi, nel 1929 uscivano sia “Addio alle armi” di Ernest Hemingway (che il premio lo riceverà nel 1954) sia “L'Urlo e il Furore” di Faulkner. Ma i rispettivi autori stavano prendendo strade diverse:
mentre il primo si attarda a gustare aperitivi sulle terrasses della Riva Sinistra parigina […] sotto l'ala protettrice, la tutela un po' ironica, dell'esule americana volontaria Gertrude Stein, l'altro torna nel Sud natio a verificare la lezione dei moderni, soprattutto quella di James Joyce, sulla realtà della piccola patria nobile e degradata dalla quale finirà per non distaccarsi più”.
W.Faulkner, L'urlo e il furore, p. 313

La storia si svolge nella contea di Yoknapatawpha: una regione immaginaria, ma che può essere situata nel Mississipi, stato in cui Faulkner è nato, nel 1897, nella contea reale di New Albany.


Il romanzo si compone di quattro capitoli il titolo di ciascuno dei quali è una data. Diamo un'occhiata:

Sette aprile 1928
Due giugno 1910
Sei aprile 1928
Otto aprile 1928

Sembrerebbe una storia in tre giorni con un lontano flashback. Sì e no. Già nel primo capitolo, quando a parlare è Benjamin, un membro della famiglia Compson, il racconto è fitto di flashback che rimontano ad un passato lontano, alla fine dell''800 quando, con suo padre Jason, appartenente alla quarta generazione da quella del capostipite Quentin Compson, giunto in Mississipi dalla Scozia alla fine del '700, inizia la lunga, inarrestabile decadenza della famiglia. 
Famiglia formata da personaggi con lo stesso nome: si stenta per esempio a riconoscere in Quentin una ragazza, ma poi si capisce che le è stato dato il nome dello zio morto suicida, morbosamente legato alla sorella Caddy, madre appunto di Quentin e sorella anche di Benjamin e di Jason.
La famiglia Compson per Faulkner rappresenta la disintegrazione dell'Old South, degli Stati Uniti del Sud prima della Guerra Civile, quando le spinte alla modernità affogano nella palude dei rapporti morbosi, dell'emotività malata e autodistruttiva di tutti i personaggi, pur diversissimi tra loro. Sono le loro voci a parlare, a partire da Benjamin e con l'esclusione di Caddy che non partecipa al racconto, ma la cui prepotente sessualità e soprattutto la fortissima spinta alla trasgressione è la pietra d'inciampo su cui rotolano tutti gli altri personaggi, oltre se stessa. È il piano inclinato verso la rovina di tutti e di ciascuno e per qualcuno si sostanzierà in una meschina attitudine al ricatto economico e alla prepotenza (Jason), per qualcun'altro in una esistenza disperata e un'altrettanto disperata fine (Quentin, zio di Quentin-ragazza, figlia di Caddy, che ha tratti caratteriali presi dalla madre e dallo zio), per altri in una inarginabile e allucinata ipocondria (la madre Catherine). L'unica voce narrante che non è parte della famiglia, ma che è “con” la famiglia da sempre, è la governante di colore Dilsey, l'unico essere umano che fa da argine alla distruzione, e il cui nipote, Luster, è l'unico che riesce ad accudire nel modo migliore perché istintivo e senza sovrastrutture l' “idiota” Benjamin. È di Dilsey, comprensibilmente, l'ultima voce di questa labirintica, faticosa, terribilmente affascinante epopea del fallimento.

È cosa risaputa ma è bene ricordarla, il titolo viene da una citazione del Macbeth:

Life's but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.


Per un (impossibile) riassunto nonché per alcuni spunti di riflessione rimandiamo a questo interessante contributo:



domenica 25 dicembre 2016

Il mare non bagna la Foresta Vergine

Note sulla lettura di "Ferito a morte" di Raffaele La Capria e "Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortese


La curatrice di questo blog non è riuscita a dare conto di ben tre incontri che si sono succeduti dall'estate 2016 al dicembre di questo stesso anno.
Cerca ora di rimediare.

Dopo l'estate ci siamo visti per parlare di “Ferito a morte” di Raffaele La Capria e de “Il mare non bagna Napoli” di Annamaria Ortese. Il grado di separazione con la lettura precedente era molto diretto: Camus ci aveva lanciato un richiamo mediterraneo dall'Algeria, e noi lo abbiamo ripreso in Italia, a Napoli.

Si può dire che il romanzo di La Capria (Napoli, 1922) comincia in mare perché nella prima scena il protagonista Massimo, appisolato nel soggiorno di casa sua, sta sognando di inseguire una spigola sott'acqua. Deve tirare sulla spigola, ma manca l'azione e la spigola si rintana in qualche anfratto. La spigola ha un nome, si chiama Occasione Mancata ed è il simbolo di tutto quello che Massimo non riesce a fare, o per una sua “pigrizia maledetta” o per l'abbraccio asfissiante della “Foresta Vergine”, nome che lui dà a Napoli, immagine-simbolo della sua prepotente bellezza e della sua impenetrabilità, della sua terribile “naturalità”.
Quasi in dormiveglia, Massimo inizia a raccontare e da questo momento in poi siamo costretti – pena la non comprensione di ciò che leggiamo - a sintonizzarci con un flusso di coscienza fatto di rapide immagini, rapidi accenni a persone con nome e cognome, caratterizzate in modo fulmineo, cui si attacca – come le patelle allo scoglio – qualche considerazione più profonda. Il racconto è costruito su flash back di tipo particolare: La Capria non ti avverte che il Massimo che parla ora è quello del ricordo, ci devi arrivare lasciandoti andare, e il “flusso” dei “quasi-pensieri” è veramente acquatico. Anzitutto nella descrizione della cosiddetta “bella giornata” che apparentemente non è altro che una giornata di sole al mare, ma che in realtà si annuncia come il miracolo di una giornata perfetta, colta in “un'esagerazione di luce” con l'acqua che è “una meraviglia”, un tempo perfetto in cui si è integri e soprattutto si è padroni di sé, delle proprie relazioni, delle proprie aspettative.
Un'illusione dunque, che sfuma ogni volta che la giornata finisce ma che comunica anche a noi che leggiamo un residuo di bellezza ineffabile che si sedimenta e che rende difficile pensarsi felici altrove. Sì perché Massimo sta per partire ma non si decide. Un amico, Gaetano, che ha già fatto la scelta, gli scrive lettere per spronarlo. Ma Gaetano, che “neanche nuotare sa”, potrebbe mai capire che ciò che trattiene Massimo è “ritrovare uno solo di quei giorni intatto com'era, ritrovare una mattina per caso uscendo con la barca me stesso al punto di partenza – e rimettere tutto a posto da quel punto” ?
Massimo vive in Palazzo Medina (sappiamo che è il Palazzo Donn'Anna, realmente abitato da La Capria con la famiglia), un palazzo che per via di quella Natura che a Napoli ha sempre la meglio sulla Storia, e che qui ha il nome di bradisismo, lentamente è affondato in acqua. Lo guarda e non può fare a meno di pensare, visto che il palazzo la città non la può lasciare, che entro alcuni secoli, forse proprio in una bella giornata, il palazzo sprofonderà e i pesci nuoteranno nelle stanze irriconoscibili per le incrostazioni marine. “Solo questione di tempo”.
Nella seconda parte (gli ultimi tre capitoli) Massimo, che già si è trasferito a Roma, torna in vacanza a casa, incontra di nuovo i suoi amici. Sono passati pochi anni ma hanno lasciato il segno. Sasà, l'irresistibile Sasà, vive di espedienti, come ha sempre fatto del resto, ma la sua figura non ha più l'alone dorato di quand'era giovane. Ogni tanto anche lui sale a Roma, l'inverno a Napoli è insopportabile, a lui ci vuole l'estate. Ma altro che estate ci vuole per Napoli: la città ha appena iniziato l'ennesima discesa negli inferi, quella del sacco dei palazzinari, della speculazione edilizia più spregiudicata, raccontata da Francesco Rosi in “Le mani sulla città” film del 1963 sceneggiato appunto da Raffaele La Capria.
È il secondo libro di La Capria, un romanzo di formazione che somiglia a un romanzo della maturità, venne pubblicato nel 1961, anno in cui vinse il Premio Strega, ma era già pronto per la pubblicazione nel 1956. Romanzo di formazione, esistenziale, ma anche romanzo sperimentale, di denuncia... Alla fine rimane un'eco, come quella che si sente accostando una conchiglia all'orecchio: è lo sciabordio dei remi, le chiacchiere di una gioventù spensierata che finirà in un imbuto, il rumore dei pensieri tra sé e sé, il rumore che si fa apparecchiando la tavola.

A proposito di tavola, nel nostro incontro del 20 settembre, per un'esigenza di sobrietà, era stata bandita la cena luculliana (che poi è rientrata prepotentemente nei due incontri successivi visto che, soprattutto quando è “in tema” aiuta a sentire più vicini gli autori) e quindi inseriamo qui alcune riflessioni (di Luisa Marigliano) su cibo e letteratura, soprattuto legate a Napoli. Riflessioni che introdurranno ad Anna Maria Ortese.

La Capria in ‘Ferito a morte’ descrive un pranzo domenicale in cui viene servito un timballo di pasta. Ho visto nel Timballo sia ‘La Bella Giornata’ che ‘La Foresta Vergine’ di cui scrive La Capria in ‘Ferito a morte’. Il Timballo ha una forma che ricorda una scultura, la sua bellezza ti cattura ancor prima del suo sapore. Sta lì in mezzo al tavolo come una Bella Giornata piena di promesse. Poi vai oltre la sua ‘crosta’ e trovi un groviglio di pasta che si intreccia e che ricorda una Foresta.
La Bellezza e la bontà del timballo ti catturano e non ti lasciano andare sino a quando il vassoio non sarà vuoto. Quando lo avrai tutto consumato ti sentirai troppo pieno, non avrai altro spazio dentro di te, non avrai la forza di fare altro se non di scivolare in un sonno agitato. Napoli è una città così bella, così piena che non ti lascia spazio, quando ci vivi ti cattura e ti annienta. Malia dalla quale Raffaele, ‘Dudù’, La Capria, pur amandola, è scappato.

È quello che ha fatto anche Anna Maria Ortese (Roma, 1914-Rapallo, 1998), fuggita da una città dalla quale si è sentita rifiutata..
Nel suo libro ‘Il mare non bagna Napoli’ la Ortese scrive di cibo nel racconto ‘Interno familiare’ : “In tavola, in tavola! Gridò la Finizio, entrando nella stanza con un vassoio su cui fumava la zuppiera di porcellana bianca, piena di mille occhietti gialli del brodo … Avevano già consumato l’antipasto, e stavano assaggiando i primi tagliolini, con piccoli sospiri di soddisfazione…”. Ma non c’è pace né dentro casa né fuori. Dentro, Anastasia, la figlia maggiore, si era illusa con il ritorno di Antonio, un vicino di casa, che si potesse realizzare il suo sogno di ‘maritarsi’, sogno che si infrange quando le raccontano dell'imminente matrimonio di Antonio. Ma solo quando Anna, la sorella minore, si sposerà Anastasia sarà definitivamente zitella. Fuori ‘un brusio, un’onda larga e segreta di suoni, di sospiri che vengono dal cortile” li rende partecipi della morte di una vicina, donn’Amelia. Sul pranzo di Natale scende la tristezza.

La Ortese si preoccupava del costo del cibo, sempre attenta a risparmiare a causa delle sue difficoltà finanziarie, parla di salatini, non accenna mai al cucinare. Per il suo grande amore e rispetto verso gli animali esprime il suo dolore per il consumo della carne che richiede l'uccisione degli animali.

Il mare non bagna Napoli” uscì nel 1953 ma tutti abbiamo letto l'edizione Adelphi del 1994 che contiene un'introduzione scritta dall'autrice. Quattro anni prima di morire Ortese pensa dunque di scrivere un'introduzione al libro scritto quarant'anni prima e la intitolata Il “Mare”come spaesamento”. La scrive molto probabilmente per saldare i conti con un passato pieno di incomprensioni e di grande dolore, un dolore evidentemente ancora così vivo da rendere aspra anche questa specie di riconciliazione, come segnala l'inciso nella frase finale:
Resta il fatto piuttosto malinconico (o solo inconsueto?) che tanto la Napoli offesa (era poi veramente offesa o solo un po' indifferente? ), quanto la persona accusata di averle inventata una atroce nevrosi, non si siano, in seguito, più incontrate: proprio come se nulla fosse avvenuto.”
"Il mare non bagna Napoli", p. 11.

Ma andiamo per ordine: la raccolta si apre con due racconti, di sapore neo-realista, Un paio di occhiali e Interno Familiare, menzionato sopra a proposito del cibo. Il terzo racconto, Oro a Forcella, è un breve reportage, piuttosto allucinato, su una visita al monte dei pegni. Proprio in un brano di questo racconto c'è la frase che dà il titolo al libro:
Non occorreva molto per capire che qui gli affetti erano stati un culto, e proprio per questo erano decaduti in vizio e follia; … Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale.
Ibidem, p. 67
Subito dopo, c'è il reportage intitolato “La città involontaria”, lunga discesa nelle viscere della città, attraverso il III e IV Granili, edificio borbonico costruito da Ferdinando Fuga e destinato alla raccolta del grano, ma con continui cambiamenti d'uso e via via sempre più deteriorato anche nella struttura. Nel degrado dell'edificio, all'epoca della visita della Ortese, si era impiantato un numero enorme di senzatetto (“tremila persone, divise in cinquecentosettanta famiglie, con una media di sei persone per famiglia”) che non è una comunità ma una massa informe, malata, arrabbiata o dolente. Un dipinto di Goya, si direbbe, talmente grottesco e oscuro che qualcuno di noi ha pensato che la visione non era obiettiva e che Anna Maria Ortese abbia dato reale sostanza ad una allucinazione. O, al meglio, ad una esagerazione emotiva. Conoscendo la sua produzione letteraria e il suo rapporto con Napoli, possono essere vere entrambe le supposizioni.


E infine l'ultima parte, quella che tanto scalpore destò quando il libro uscì. Una sezione intitolata significativamente “Il silenzio della ragione” in cui la scrittrice dà conto, con spietatezza, dell'ambiente intellettuale del suo tempo. Gli intellettuali descritti (con nomi e cognomi) sono visti all'interno delle loro case, con le loro piccolezze, i loro tic, le loro speranze frustrate di costituire un'avanguardia meridionale che finalmente faccia sollevare la città attraverso l'uso della Ragione. Ci sono pagine memorabili e ritratti al vetriolo che possono essere fatti solo da chi, in una data situazione, sta al contempo troppo dentro e troppo fuori. Impossibile da riassumere e da analizzare criticamente, non è il caso di questo blog, ci basta rimandare a un bell'articolo di Nello Ajello (che dello stesso ambiente faceva parte) basato su un'intervista alla scrittrice fatta a Milano in occasione della pubblicazione di Adelphi: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/05/15/ortese-spacca-napoli.html

e, tanto per rimanere in tema, alle amare parole di La Capria:
Milan Kundera dice che perfino il romanzo a chiave, quello in cui sotto il nome di un personaggio si riconosce una persona vera ed identificabile, «è una cosa esteticamente equivoca e moralmente scorretta». E aggiunge che «prima di pubblicare un libro (l'autore) dovrebbe preoccuparsi di nascondere accuratamente le chiavi che potrebbero rendere riconoscibili (i personaggi), anzitutto per un minimo di riguardo dovuto a chi avrà la sorpresa di scoprire nel romanzo qualche frammento della propria vita». Però ne Il mare non bagna Napoli la Ortese è andata ben oltre il limite del romanzo a chiave, e ha avuto ben meno di un minimo di riguardo verso le persone, perché non di qualche frammento delle loro vite si è impadronita ma, come ho detto, di tutto, e tutto ha spiattellato sotto gli occhi di tutti, perfino il numero dei capelli sul cranio della moglie di uno di loro! 
Napolitan graffiti: come eravamo, Milano: Rizzoli, 1998, p.116

S.Erasmo ai Granili (1972-1974), foto di Gian Luigi Gargiulo

lunedì 11 luglio 2016

Di nuovo nel Mediterraneo alla ricerca del padre
Il primo uomo di Albert Camus

non ho mai potuto rinunciare alla luce, alla felicità di esistere, alla vita libera in cui sono cresciuto



Un po' vittime un po' complici della nostra storia, ci siamo imbattuti in un altro Nobel. Il passaggio è stato guidato dalla nostra lettura precedente, Zorba il greco: nel 1957 infatti, Nikos Katzantzakis, l'autore di Zorba, aveva mancato il premio per un solo punto. L'aveva vinto Camus, che gli scrisse una lettera molto bella. E allora, Camus.
Dello scrittore franco-algerino abbiamo scelto Il primo uomo e di questo abbiamo discusso durante il nostro incontro del 14 giugno. Due di noi hanno letto Lo straniero e magari poi, se ne avranno voglia, aggiungeranno un post per tutto il gruppo.
Il primo uomo ci è piaciuto moltissimo, tanto che alcune sere dopo abbiamo organizzato un piccolo cine-club per vedere il film di Gianni Amelio.

Camus è un gigante, senza se e senza ma. Si laurea in filosofia nel 1936 con una tesi sui rapporti tra Ellenismo e Cristianesimo nelle opere di Plotino e S. Agostino (Metafisica cristiana ed ellenismo) proprio quando l'Europa sta per sprofondare nel baratro della seconda guerra mondiale. Camus, nato nel 1913, aveva già da tempo fatto i conti con il dolore: aveva contratto la tubercolosi, considerata ai tempi inguaribile, che lo riprenderà diverse volte, e aveva perso suo padre, morto giovanissimo nella battaglia della Marna, durante la prima guerra mondiale, nell'ottobre del 1914.
Nel 1937 abbandona il Partito Comunista cui aveva aderito nel '34, continua gli studi di filosofia e, tra ritorni ad Algeri e soggiorni parigini, entra nella Resistenza. Nel 1943 viene pubblicato Lo straniero. La rottura con Sartre si consuma tra il 1951 e il 1953 e le bordate che spararono l'uno contro l'altro sono leggenda, ma qui non entriamo nel dettaglio. Piuttosto, attraverso alcuni brani del discorso fatto durante il conferimento del premio, osserviamo, in un solo colpo d'occhio, l'uomo, lo scrittore, la sua morale, la sua azione (per inciso, prima della rottura, proprio questo disse di lui Sartre: "l'ammirevole congiunzione di una persona, di un'azione e di un'opera"). Ecco dunque alcune frasi:

La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono.
[...] Il silenzio di un prigioniero sconosciuto e umiliato all'altro capo del mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell'arte.
[…] Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della sua vita […] lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione. Essere al servizio della verità e della libertà.
[…] Qualunque siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all'oppressione.

Poi questa, di lucidità implacabile:
Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà.

E infine:
La verità è misteriosa, sfuggente, sempre da conquistare. La libertà è pericolosa, dura da vivere quanto esaltante. Dobbiamo marciare verso questi due obiettivi, con fatica ma decisi, ben consci dei nostri errori in un così lungo cammino.

Il primo uomo è stato pubblicato postumo nel 1994, a cura della figlia Catherine, sulla base di un manoscritto che si trovava in una sacca nell'automobile in cui Camus trovò la morte nell'incidente del 4 gennaio del 1960. Da quanto risulta dalla sua biografia, è un libro scritto in un momento molto difficile: la rottura con Sartre e le polemiche seguite al conferimento del Nobel lo fanno sentire sempre più isolato. Ha forse bisogno di tornare a sé e – come dice sua figlia “per dire chi è dice da dove viene”. Il “dove” è l'Algeria, Mondovi, la povera stanza in cui è nato in una notte di violenti temporali, è Belcourt, il sobborgo operaio di Algeri, dove la madre si sposta con la famiglia e dove la raggiunge la notizia della morte del marito.
Ma questo “dove” è inscritto in un altro, più grande, quello del “primo uomo” ed è il mondo indicibilmente duro, ricolmo di conflitti, di odio, di malattia e di morte che i francesi si trovano davanti quando sbarcano come coloni nel 1848: invece della terra promessa che si aspettavano si ritrovano letteralmente in una palude, in balia delle piogge, delle continue incursioni degli arabi che li vogliono cacciare, dei leoni di Numidia (quelli con la criniera nera, come è specificato nei taccuini aggiunti al racconto) che ruggiscono di notte fuori delle tende in cui i coloni si sono accampati nella più totale promiscuità e in condizioni di igiene disastrose. Ci vogliono almeno quattro anni perché dalle tende passino alle case e si stabiliscano in una convivenza sempre difficile con la popolazione araba locale. Circa un secolo dopo, gli algerini si liberano attraverso una guerra cruentissima, che dura dal 1954 al 1962, in seguito alla quale la stragrande maggioranza dei francesi pieds noirs, come erano appunto i Camus, lasciano il paese. Non così la madre dello scrittore, che rimane ad Algeri.
Camus scrive questo suo ultimo romanzo mentre tutto ciò sta avvenendo, mentre il suo “dove” si sgretola e la sua posizione è incompresa da tutte e due le parti: per lui non c'era differenza tra un povero arabo e un povero francese, Algeria araba e Algeria francese erano la stessa cosa, cioè il suo paese, il suo sole, il suo mare, la struggente bellezza dei pomeriggi di gioco sfrenato di quando era bambino....
Fermiamoci qui perché è impossibile riassumere tutto quello che ci sarebbe da dire intorno al libro e alla figura di questo grande intellettuale e torniamo alla trama del libro, a prima vista sfilacciata poi sempre più coinvolgente e incredibilmente commovente.
L'inizio – quello che ha colpito molti di noi – è quasi epico, con il calesse carico di bauli che si fa strada nella tempesta per consegnare infine una stremata partoriente in una casa sconosciuta nelle mani di alcune donne sconosciute che l'aiutano a “fare da sé” ben prima che arrivi il dottore. È la madre di Camus, Catherine, e inizia così il suo soggiorno in Algeria.
Secondo capitolo. Jacques Cormery (alias dello scrittore) è a Saint-Brieuc, in Francia, cercando la tomba di suo padre Henry, morto nell'ottobre del 1914. Trova la tomba, fa un rapido calcolo: suo padre aveva ventinove anni quando morì, lui ne ha quaranta.
Parte allora la ricerca del parte, suscitata dal desiderio di ridare dignità di memoria a questo povero morto dimenticato, cercare di scoprire chi era.
Ritorno ad Algeri, dialoghi con la madre amatissima, sempre distante nella sua quasi sordità, recupero a poco a poco di tutta l'infanzia, un'infanzia in cui un padre non c'è. C'è una nonna tagliata con l'accetta, pilastro della casa, terrificante nelle sue punizioni, c'è uno zio, strano di testa ma molto bello, c'è un maestro intelligente che permetterà a Jacques lo scarto decisivo, quello dell'emancipazione attraverso la studio, la scuola. Tutto ciò con una scrittura attaccata agli esseri umani, a quel che sono e a quel che diventano, che ne restituisce in modo quadrimensionale la figura, per noi che non c'eravamo, lì, nella polvere assolata di Belcourt ma che a fine lettura sapremmo quasi descrivere l'odore della nonna, di Pierre, l'amico che lo accompagna fino alla fine. E soprattutto non dimenticheremo mai il senso profondo della solidarietà dell'uomo che scrive verso il mondo che ha abitato: mai esibita come una medaglia ma anzi vissuta attraverso dubbi e conflitti, perseguita quasi come se avesse in sé una necessità superiore, l'unica possibilità di riscatto che ha l'uomo per giustificare la sua permanenza in un mondo assurdo.

“Solitaire – solidaire” lo descrive la figlia, forse Camus è tutto in questa antinomia.

Camus con i figli Catherine e Jean


martedì 7 giugno 2016

Zorba, l'uomo, la carne, la morte e il diavolo

Il titolo allude a quello di un celebre saggio di Mario Praz, “La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica” non perché Alexis Zorba, il protagonista di “Zorba il greco” di Nikos Kazantzakis, sia un eroe romantico ma perché sicuramente con la carne, la morte e il diavolo ha molto a che fare. Perché ha a che fare con la vita.
Tra l'altro siamo arrivati a lui proprio per un'assonanza con “Canne al vento”, nostra lettura immediatamente precedente, anche quello romanzo di carne e sangue, e perché si svolge su un'altra isola del Mediterraneo, grande e importante come la Sardegna, Creta.

Dice Zorba a un certo punto, al suo “padrone” che è l'io narrante: “Anche il corpo ha un'anima: abbine pietà. Dalle qualcosa da mangiare, padrone, dalle qualcosa. È la nostra bestia da soma, non lo sai? Se non la nutriamo a dovere ci lascerà a terra nel bel mezzo della strada”.

Per il 17 maggio dunque, come da tradizione, cena greca, tzatziki, olive, pomodori, pastitzio, e una buona dose di retsina e ouzo, molta nostalgia delle taverne greche per chi le conosce.... e naturalmente la musica di Mikis Theodorakis.

Da subito, Zorba ci appare come l'alter ego del protagonista che fortuitamente lo incontra al Pireo mentre sta per imbarcarsi per Creta per un affare che li legherà poi indissolubilmente.
Grande anarchico Alexis, quanto ponderato, riflessivo, inibito è Nikos (lo possiamo chiamare così, con il nome dello scrittore, visto che è di lui che si tratta). Nikos è un intellettuale, uno “scribacchino”; lo immaginiamo verso i trent'anni, vestito con proprietà e sempre in conflitto con la materia delle sue ricerche: tra tutte risalta uno scritto sul Buddha, sua croce e delizia. “Carne non esposta al sole” lo definirà Zorba.
Partono insieme, durante la notte il mare è agitato ma al mattino è calmo e color indaco, scenario perfetto per l'apparizione della “grande isola sovrana”. 


Zorba inizia il racconto di sé, della sua vita avventurosa, dalla Macedonia, dove è nato, a Creta, dove è già stato prima di ora a combattere insieme ai ribelli cretesi contro i turchi. Ha ucciso, anche barbaramente. È stato un brigante. Ora è contro la guerra. Anche se porta, come in quel caso, la libertà.
Sull'isola trovano da dormire nelle stanze affittate da Madame Hortense, una chanteuse che sotto il trucco pesante nasconde un'anima bambina e passionale. Zorba la farà felice, adulandola per amore e per rispetto della sua umanità. La chiamerà sirena e ninfa del mare e per lei sarà credibile, e questo è quel che conta. Del resto, dietro ogni donna per lui c'è Venere, la Donna.
Nell'isola, al di là dei suoi racconti, semplicemente guardandolo, Nikos conosce davvero Zorba. Prova un'ammirazione sconfinata per il suo sguardo primigenio sul mondo: “Tutte le cose sbiadite dalla consuetudine quotidiana riacquistavano lo splendore che avevano i primi giorni, appena uscite dalle mani di Dio”. Zorba balla in riva al mare come un uccello e in poche occasioni, tirandolo fuori con delicatezza dalla sua custodia di stoffa, suona il salterio. Il ballo e la musica sono la sua seconda natura.
I due lavorano insieme per la miniera di lignite, Nikos è il padrone, Zorba il primo dei lavoranti. Si integrano nella comunità locale ognuno a suo modo. Ci sono storie efferate che accadono, come quella della vedova seduttrice che si muove come il personaggio di una tragedia, i monaci fuori di testa e con la tunica bisunta che ricordano certi preti russi di Dostoevskij, ci sono i benpensanti, i misogini, i poveri di spirito... una comunità dai tratti universali.
Tra i dubbi esistenziali dello “scribacchino” e le potenti visioni del brigante, che ogni volta che guarda il cielo stellato lo vede per la prima volta, ne è soggiogato e lo descrive come un profeta, si dipana la storia cretese dei due, destinata ad interrompersi in modo drammatico.

Sappiamo che Zorba, anzi Zorbàs, è un personaggio reale: Kazantzakis lo conobbe sul Monte Athos nel 1914, mentre era lì come visitatore. Zorbàs, che si chiamava Jorghis, era un taglialegna. Divennero amici e collaboratori e realmente lavorarono in una miniera di lignite, come quella del romanzo, ma nel Mani (Peloponneso). Lo scrittore lo portò con sé nel 1917 nel Caucaso, per una missione politica (riportare in Grecia gli elleni che vivevano lì da epoche lontanissime). Si separarono nel 1920 e nel 1942 Kazantzakis venne a sapere da un maestro di Skopje che Zorbàs era morto. Ma “Nulla di suo era morto in me. Come se tutto ciò che aveva toccato Zorbàs fosse diventato immortale”. Scrisse così, nel 1943, a Egina, in quarantacinque giorni, “Vita e opere di Alexis Zorbàs” (divenuto poi, nella traduzione inglese, “Zorba the Greek”).


Una piccola curiosità legata al Premio Nobel. Nikos Kazantzakis, uomo di cultura vastissima, instancabile viaggiatore e prolificissimo scrittore, nonché traduttore dal greco antico al neogreco dell'Iliade e dell'Odissea, autore di una monumentale Storia della letteratura russa e della traduzione della Divina Commedia, è andato molto vicino all'assegnazione del Premio.
Lo scrittore morì nel 1957. Proprio in quell'anno, il premio veniva assegnato ad Albert Camus, per un solo voto di differenza. Due anni dopo, il 16 marzo 1959, Camus scrive a Eleni Kazantzakis
Nutrivo una grande ammirazione e se mi consente una sorta di affetto per l'opera di suo marito. Non dimenticherò mai che, proprio nel giorno in cui mio malgrado ricevevo un riconoscimento che Kazantzakis meritava cento volte più di me, ho ricevuto un suo telegramma tra i più magnanimi.”

Sulla tomba di Nikos Kazantzakis, a Heraklion, c'è un motto – si direbbe – inventato da Zorba:


Non mi aspetto nulla. Non temo nulla. Sono libero


martedì 24 maggio 2016

Italia, Sardegna, Canne al vento...



Martedì 12 aprile ci siamo incontrati per parlare di “Canne al vento” di Grazia Deledda, prima immersione nella letteratura italiana dopo tanti titoli stranieri. La cena a tema è stata all'altezza della tradizione: pane carasau in abbondanza, crema di tonno (siciliano, piccola deroga), splendidi gnocchetti con salsiccia e pecorino, vino Vermentino e Cannonau. Infine, dei dolci morbidi a forma di caramelle fatti con il miele e le mandorle. Secondo la ricetta non dovevano venire così, ma erano squisiti lo stesso.
Anzitutto abbiamo parlato della sorpresa (per molti di noi dovuta a semplice ignoranza) di essersi trovati davanti a un racconto solo apparentemente naturalista/verista, intriso di magia e di atmosfere decadenti, non solo nel senso proprio della parola riferita alla decadenza materiale della famiglia Pintor, ma anche in quello stilistico: decadentismo dei contenuti allusivi e malinconicamente pessimisti, come le parole che li evocano.

Galte è il paese in cui è ambientato il romanzo (o novella? o lungo racconto ?). È un nome di fantasia ma allude a Galtellì, antica baronìa e sede vescovile del nuorese, alle pendici del monte Tuttavista.
Il territorio di Galte è funestato dalla malaria che ha origine nelle paludi del fiume Cedrino.
La malaria affligge con le sue febbri ricorrenti Efix, ovvero il protagonista del romanzo, che ci viene incontro alla prima riga, insieme alle dame Pintor, di cui è il servo.
Lo seguiamo nel “poderetto” in collina che ancora gestisce per le sue dame: Ester, Ruth, Noemi. Ce n'era un'altra, Lia, l'ultima, che però è fuggita anni addietro nel Continente.
Efix non riceve compenso per il suo lavoro: le dame sono in rovina e mantenere il podere è una forma di resistenza al disastro, tacitamente accettata dalle parti.
Come tutti nel paese, Efix sente numerose presenze magiche intorno a sé: sono le “panas” (donne morte di parto); il folletto con sette berretti che fugge per il bosco inseguito da vampiri con la coda d'acciaio; le “janas”, piccole fate cattive; giganti che si affacciano tra le montagne: “tutto un mondo di creature che anima le colline e le valli”.
Una pittrice oggi novantenne, Bonaria Manca, originaria di Orune, nel nuorese, ha dipinto le pareti della sua casa di Tuscania con gli oggetti della memoria. C'è anche un essere misterioso, che lei chiama “Eknokeo”, un gigante. Eccolo:


Torniamo ad Efix: attraverso i suoi ricordi, che animano le sue faticose giornate, conosciamo tutti i Pintor, compresi i genitori delle dame, donna Maria Cristina e don Zame “rosso e violento”, morto in circostanze misteriose su cui il paese mormora da sempre e che verranno svelate pienamente verso la fine del libro, le quattro figlie che il padre non voleva far sposare se non a uomini degni di loro. Dopo la morte del padre e la fuga di Lia, le tre nubili si sono chiuse sempre di più nel loro arcaico mondo. Solo una volta all'anno l'universo chiuso di Galte partecipa al rito quasi dionisiaco della festa intorno alla chiesa di San Pietro, dove si fanno fuochi, si canta , si balla, si intrecciano sguardi e, soprattutto, si ride. Così è oggi la chiesa:


In questo microcosmo in disfacimento arriva, come un sasso tirato nello stagno, la notizia del prossimo arrivo di Giacinto, figlio di Lia, la quarta figlia Pintor, quella fuggita nel Continente. La storia si dipana da questo momento in poi intorno a questa sorta di “deus ex machina”, bello, ingenuo, straniero e tuttavia legato per via di sangue a queste terre. A differenza della tragedia greca, dove il “deus ex machina” arrivava per risolvere, intorno a Giacinto (che naturalmente è squattrinato), tutto si complica e presto si assiste – come direbbe Freud – al “ritorno del rimosso”: il desiderio sessuale fa ribollire il sangue, le passioni prorompono, il giovane diviene oggetto delle tante aspettative represse per tanti tanti anni. Forse - ci siamo detti - è questa l'ossatura del racconto: come i vari personaggi fanno fronte (o soccombono) a questo scatenarsi delle passioni.
Poco a poco la rovina si abbatte anche su Giacinto, le aspettative si sgonfiano e pian piano si annuncia la tragedia finale che però arriverà diluita e dai toni smorzati, come se il fatalismo che pervade il romanzo sia mitigato proprio dalla capacità di (quasi) tutti di essere “canne al vento”, battute, strapazzate e fustigate ma ben radicate nella terra arida da cui traggono sostanza.

Restano profondamente impressi i personaggi, descritti con grande efficacia: Efix, eroe biblico e omerico, le tre dame (le Tre Parche...), Giacinto, il più “canna al vento” di tutti, il possente Don Predu, che con la sua possente vitalità riesce alla fine a convincere Noemi a sposarlo.
Sarebbe troppo lungo parlare delle protagoniste femminili: Deledda conosce bene e rappresenta in tutta la sua complessità quell'universo femminile di inizio secolo, stretto da una società paternalista e repressiva. Ne è scappata per tempo, non vi tornerà mai più, ma non possiamo fare a meno di lei per conoscerlo.
Grazia Deledda (Nuoro 1871-Roma 1936) scrive “Canne al vento” nel 1913 dopo che si è trasferita a Roma nel 1900, in seguito al matrimonio. Scrisse moltissimo, aiutata in ciò dalla scarsa frequentazione di salotti letterari.
Ricevette il Nobel nel 1926, secondo scrittore italiano dopo Carducci. Questa la motivazione:
Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.

martedì 29 marzo 2016

Adieu Anna Karenina

Nel giorno fatidico 8 marzo abbiamo detto "Adieu Karenin", abbandonando il ponderoso capolavoro di Lev Tolstoj che ci ha impegnato per un paio di mesi. È stato un addio malinconico, mitigato, come nella migliore tradizione dei nostri incontri, da manicaretti, stavolta "à la russe". Degno di menzione lo stufato di carne alla Stroganoff, offerto dalla padrona di casa. E poi la torta di limone "Anke", preparata magistralmente da Luisa. La torta prende il nome del medico che ne aveva dato la ricetta alla madre di Sof'ja Tolstaja e che si dice non mancasse mai nei pranzi delle ricorrenze della famiglia Tolstoj. Per non parlare poi dell'accompagnamento musicale filologico, davvero notevole: Francesco ci ha fatto ascoltare durante il convivio l'opera "Quadri da un'esposizione" di Modest Musorskij di cui si conoscono diverse orchestrazioni ma che in realtà era stata scritta per pianoforte nel 1874, subito dopo la visita del musicista alla mostra in onore dell'amico pittore Viktor A. Hartmann, morto improvvisamente l'anno prima. Ebbene, "Anna Karenina" ufficialmente venne pubblicata nel 1877 ma la prima apparizione fu in una rivista nel 1875, quasi in contemporanea con i "Quadri" di Musorskij, da noi ascoltati per pianoforte così come uscirono, quasi a braccetto di Anna, a Pietroburgo. Ecco un'immagine, il dipinto cui si riferisce l'ultimo movimento dell'opera: "La grande porta di Kiev", 

e il suo "sonoro": 


Pietroburgo e Mosca, saloni da ballo, preziosi abiti ornati di pizzo nero, ma anche stivaloni e fango di palude, rumori di uccelli e di cani, tramonti bellissimi e notti fascinose passate all'aperto, sdraiati sulla paglia, in compagnia dei mužiki, nel grande caleidoscopio di azioni e riflessioni che impegnano i tanti e diversissimi personaggi. Luisa ha proposto un'interessante lettura del personaggio di Anna su cui ci siamo trovati tutti piuttosto d'accordo. Anna è un personaggio "mosaico", una sorta di figura "collage", le cui caratteristiche sono anche contenute e sparse negli altri personaggi. Il dire la verità, l'essere preda della passione e al contempo raziocinante e frivola, sono tratti che troviamo in altri personaggi: il dire sempre la verità, per esempio, la associa a Konstantín Levin, e siccome quest'ultimo è sicuramente un personaggio autobiografico, è piuttosto chiaro che anche Anna lo sia. Un alter ego femminile, dalla sorte tragica, con un treno in comune....
La scrittura densa e impegnativa, di una leggendaria precisione, non concede tregua, soprattutto quando si parla di nascite e di morti (della morte ci sono descrizioni di una fisicità assoluta e priva di orpelli; del resto, Tolstoj è l'autore de "La morte di Ivan Il'ic"), ma anche nei momenti di mondanità più lieve.
Insomma, questo Ottocento russo sembra tanto distante ma non lo è affatto.
E per quanto riguarda i fermenti di lotta di classe e l'atteggiamento di Tolstoj rispetto alla terra e ai contadini, così importanti per la sua ricerca esistenziale, e soprattutto la sua influenza sul pacifismo, invece che rintracciarli nell'opera, e consegnarli a questo post, inseriamo, su segnalazione di Luisa, riflessioni su un Tolstoj "indiano", tratte da "Peacelink", blog pacifista, e basate principalmente su: Bori-Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino 1985 

Gandhi venne conquistato dalla lettura de "La lettera a un indù" scritta da Tolstoij nel 1908-1909. Il 24 maggio del 1908 Taraknath Das, giovane indiano bengalese rivoluzionario anti-britannico, scrisse a Tolstoij: "Voi odiate la guerra, ma la fame in India è spaventosa più di qualsiasi guerra...non per penuria di alimenti ma a causa del depredamento della popolazione e della spoliazione del paese da parte del governo britannico". Tolstoij riceve la lettera il 7 giugno e comincia a scrivere 'Lettera a un indù'. Vi si dedicherà per 6 mesi scrivendo ben 27 stesure successive per 413 fogli diversi. Das riceve la risposta di Tolsoij che verrà pubblicata come lettera aperta, con una sua replica, nel marzo-aprile 1910. Anche Gandhi la legge, ne viene rapito, e il 1° ottobre scrive a Tolstoij chiedendogli a sua volta l'autorizzazione a pubblicarla. Tolstoj la concede e la lettera viene pubblicata, non senza difficoltà, su "Indian Opinion' a puntate tra dicembre-gennaio 1909-1910.
L'ultima lettera che Tolstoij scrisse a Gandhi è datata settembre 1910, pochi mesi prima della sua morte.
Nel necrologio che scrisse per lui, Gandhi evidenzia così il maggior merito di Tolstoj: «La grande virtù di Tolstoj fu di mettere in pratica ciò che predicava»


Passando in Italia nel 1931 il Mahatma andò a fare visita, a Roma, a Tatiana Tolstoj, figlia di Lev Tolstoj, vedova Sukhotin. Quando Gandhi fu ucciso, il 30 gennaio 1948, Tatiana scrisse a Nehru, il 3 novembre 1949, per chiedere la grazia per i due assassini condannati a morte.
Gandhi così sintetizzò il pensiero di Tolstoij :
Gli uomini non devono accomunare ricchezze, non devono sfruttare il lavoro altrui.
Per quanto male ci faccia una persona dobbiamo fargli del bene.
Occorre badare ai propri doveri più che ai propri diritti.
L'agricoltura è la vera occupazione dell'uomo.